L’enorme resa alla tristezza di un palazzaccio screpolato. Lenzuola che salutano un cielo smorto, la lenta consunzione della malinconia sulle cose abbandonate, esistenze che abitano il cemento trovandovi riparo, sono orme che portano verso una storia, quella di “Una giornata particolare”, un film che, dopo più di quattro decenni, restituisce il senso del male con un’intensità vibrante che parla all'orecchio, senza urlare, e per questo strappa le lacrime agli occhi. 

A Cannes, lunghissimi applausi accompagnarono la proiezione di un capolavoro che vedeva in scena due giganti, Marcello Mastroianni e Sofia Loren. La pellicola vinse il Golden Globe come miglior film straniero, ricevendo due candidature al Premio Oscar per il miglior film straniero e per il miglior attore. Scritta da Ettore Scola (anche regista), Maurizio Costanzo e Ruggero Maccari, la sceneggiatura si ispira al reale destino che toccò a molti omosessuali, condannati dal regime fascista ai lavori forzati in Sardegna. Scola indugia sugli occhi dell'edificio che si aprono in una mattina non uguale a tante altre. La scena dello splendido piano sequenza è disseminata da dettagli così preziosi, che a vederla e rivederla evoca ogni volta sorpresa e meraviglia.

Non c’è felicità all’alba delle sei di quel giorno, neppure speranza, alla fine. Ma nessuno sembra accorgersi dell'inferno di quei momenti. Nel mondo in pellicola di Ettore Scola, è il 6 maggio del 1938. Piena dittatura. La scena si apre su Palazzo Federici, complesso monstre in cui gli effetti del funzionalismo architettonico incrociano le strade dello spietato razionalismo: quello che serve deve avere la forma scarna dell'essenziale utile, ciò che deve essere bello, un’altra. Non c’è traccia di bello nell’abbraccio delle ali di quel blocco di cemento di ventisei scale che attraversano, come un’aorta, il corpo di seicentocinquanta appartamenti. Lì dentro la vita si sfiata negli stenti di un quotidiano stritolato dalla miseria. Lì dentro, esistenze si consumano e si spengono e vengono dimenticate, e sono mai amate.

Così è anche per Antonietta e Gabriele, anime separate da un pugno di metri, sconosciute fino a che le loro due solitudini si riconoscono e un po’ si amano, proprio nell’ora dell’odio. L’Italia intera sventola disgraziate bandiere rosse uncinate di nero, si veste a lutto per la festa del Male, la visita del Fuhrer accolto a Roma a braccia aperte dal Duce per cementare un patto sulfureo. Un sole smagliato di grigio, bagna gli interni della casa di Antonietta, il ferro da stiro e il suo caffè, che ruba a cucchiaini, mentre comincia il rituale mattutino. Attraversa coi panni puliti e inamidati le altre stanze, raffazzonate con teli e paraventi a dividerne gli spazi, che conservano il sonno dei suoi sei figli e di un marito noncurante e colmo di boria. Tutti, in famiglia, andranno sgolarsi per salutare i dittatori che promettono sogni di gloria (ma per loro stessi soltanto), tutti tranne lei, a cui tocca rassettare, pulire, stirare, cucinare, rimanere nella cella col grembiale addosso.

La sua vita di gran pena è cucita a pelle sulla rassegnazione, l’accettazione supina di un dovere femminile da ottemperare senza un lamento. Il suo ruolo di donna, procreatrice, madre, non lascia margini alla felicità, all’autonomia, neanche per errore. Suo marito si asciuga le mani alla sua veste e le dice: tanto fai schifo, mentre corregge l’erede che osa chiamare un accessorio pon-pon in luogo dell’italico fiocco. I figli scivolano accanto ad Antonietta senza l’ombra di un’affettività, neanche di riflesso, presi come sono da una crescita che non contempla la tenerezza in nessuna derivazione. Le femmine saranno merce da offrire agli uomini, mentre i maschi diventeranno mariti, padri, soldati.

Quando tutti vanno via, per acclamare i nuovi re, e le stanze tornano silenziose, Antonietta con pazienza si rimette al lavoro, a fare quello che deve fare: sistemare i letti, piegare i vestiti, a dimenticare quello che vorrebbe, che poi non sa neanche bene cos’è.

Ed ecco che arriva l’inatteso, un soffio caldo, trasportato dalle ali di un merlo scappato via. Così Antonietta incontra Gabriele, e le due tristezze si compensano, alleggerendosi per qualche ora. I pensieri di morte di lui, licenziato dalla Radio di Stato per la sua omosessualità, si appoggiano sull’esistenza grama di lei, imprigionata in una casa che è una gabbia per uccelli, ma con lo sportellino saldato a fuoco, perché non possa fuggire mai. Mentre i due si avvicinano, si studiano, dividono lo stesso pranzo, le voci dalla radio arrivano ovattate a raccontare l’euforia cieca e stupida della moltitudine che segue come un gregge chi è davanti, solo perché è davanti, mentre indietro restano morti ammazzati, esistenze triturate, lasciate a marcire. In quell’aria di sospensione, attesa, i due protagonisti sembrano le uniche due persone al mondo, le uniche due persone che possono star vicine per sopravvivere. Quando sul finale l’incantesimo si spezza, il mondo riappare nella sua veste di velluto nero che oscura l'empatia, la comprensione, la pietà e lascia scoperto solo il pallore dell'ingiustizia, il potere dei più forti che puliscono le loro mani sporche, sulle vesti candide di chi non ha più sogni.