In televisione va in onda il vino novello. Etichetta: Totti. Così lo schermo stappa la sua prima storia super contemporanea, una involontaria citazione dal celebre scambio di “Balle spaziali”: «Quando sta avvenendo questo? Adesso! Ma adesso quando? Adesso», creando una specie di distopia della memoria fresca.

Non esiste, nel progetto di serie, un corposo passato su cui far lavorare i trampoli delle iperboli, ma una sorta di interattività con un protagonista sovrapponibile a quello dello schermo che gli corre affianco anche con meno fiato. Tocca quasi pizzicarsi i gomiti per staccare il reale dal miele del finto.

La serie non è la nave che salpa lontano ma diventa una soap infinita in cui il bello inizia dopo l’ultimo fotogramma. In quel punto meridiano comincerà il dibattito live, magari scaturiranno altre liti, magari altri intrecci, fino alla prossima stagione televisiva che potrebbe finanche doppiare la vita reale dei protagonisti.

Se non fosse un prodotto commerciale sarebbe quasi geniale.

Neanche il tempo di vederlo salutare l’Olimpico che Totti è diventato già storia da sublimare, scrivere, interpretare, girare, vedere. Il gioco della finzione con “Speravo de morì prima” (la serie in onda dal 19 marzo su Sky Atlantic) da prodotto diventa esperimento di post-avanguardia in salsa matriciana. Insomma, quasi fantascienza.

Un momento scorre il trailer della serie diretta da Luca Ribuoli, l’attimo seguente passa lo spot di Very Mobile in cui il Totti reale fa il verso a Siri; neanche il tempo di struggersi sulla storia d’amore nascitura tra Castellitto/Totti e Ilary Blasi/Greta Scarano, ed ecco il messaggio promozionale di Ilary che si abbraccia il piumone profumato di Lenor, giovane, bellissima, praticamente la sorella del suo alter-ego.

«Non staremo esagerando?» chiede l’attrice che interpreta la mamma del campione, quando guarda perplessa lo sfondo della piscina col simbolo della Roma, ed è forse questa la domanda che l’esperimento della veri-veri-fiction sottende. Già, non staremo esagerando?

Solo qualche mese fa, la storia del capitano-c’è-solo-un-capitano è entrata negli schermi con il documentario di Infascelli “Mi chiamo Francesco Totti”. Una di quelle opere di sport che ti acchiappano anche se non sei tifoso, anche se non segui il calcio, anche se in curva ci sei stato per sbaglio da piccolo a seguito del papà ed eri ancora così basso da tornare a casa con la mappa precisa delle pieghe della maglietta di quello davanti. Nel bene o nel male, lo sport è poesia anche per chi non lo vive, per chi è convinto che il fuorigioco sia più complicato di un calcolo integrale, per chi crede che il mediano sia una canzone di Ligabue.

Pensiamo a “Sfide”, il programma di Raitre, spolpato avidamente dagli spettatori ipnotizzati a sera, con la bocca semiaperta e un filo di saliva che scorreva sul mento, a seguire il racconto di uno sportivo, di una partita storica, di una rivalità mai pareggiata. Alcune di quelle puntate si sono incastonate nella memoria come se le avessero trapiantate in un posto molto vicino al lato sinistro del petto.

Altra cosa è il linguaggio cinematografico o simil-tale, che ha bisogno dell’aria degli anni per creare la giusta distanza dal sogno che racconta. È necessario che una buona storia vera sia un whiskey con un sufficiente grado di invecchiamento, perché va sorbita lentamente per scaldare la pancia e aromatizzare la bocca. Non è il quartino di vinello appena spremuto che si cala in fretta prima che diventi aceto