Nella crema fluidissima del catalogo streaming delle serie tv, scegliere il condimento giusto per le nostre serate sempre più brevi, vinte dal sonno delle undici (se non delle dieci), non è così semplice. Per evitare di scrollare a vuoto i cataloghi saturi di sinossi infiocchettate quasi sempre da toni entusiastici di default (“imperdibile”, “capolavoro”, “vi inchioderà allo schermo”) e mandare a vuoto dieci trailer prima di capire che siamo davanti a una serie con lo stesso appeal di una trasposizione di Danielle Steel delle quattro del pomeriggio, meglio andare a colpo sicuro.

Quindi ecco tre consigli per tre serie che meritano il tasto Play (o Rec se l’orologio biologico ticchetta troppo in fretta).

Raised by wolves

Prima avvertenza: siamo dalle parti della fantascienza con un occhio strizzato a Westworld. Se siete amanti del genere nulla quaestio, se non lo siete accantonate il pregiudizio (quanti scettici del fantasy sono poi rimasti impigliati in “Trono di Spade”) e avviate la visione (su Sky le puntate ogni venerdì), se proprio la cosa non vi garba e vi piace nuotare in altri mari, saltate questo paragrafo e scorrete in basso al secondo paragrafo.

A dirigere i due episodi di debutto c’è un signore che si chiama Ridley di nome e Scott di cognome. La sua influenza si sente eccome, e il testimone che lascia poi ai registi Luke Scott, Sergio Mimica-Gezzan, Alex Gabassi, James Hawes non è proprio una roccia infrangibile, ma un bicchiere di cristallo molto fragile da maneggiare. Ecco perché mentre il pilota spinge al massimo catturando l’attenzione, i successivi due o tre episodi un po’ perdono la presa. Ma è una scivolata momentanea.

La storia è scritta bene e i personaggi (uno su tutti, l’ipnotica Amanda Collin, androgina e favolosa androide Madre) iniziano a girare avvolgendo la matassa come si deve.

La trama in due-parole-due: all’alba del XXII secolo la Terra sanguina mortalmente dopo una guerra devastante. Due androidi, Madre e Padre, vengono spediti in un modulo a ricreare una nuova umanità sul pianeta Kepler-22 b. Questa è solo la traccia base, tanto per solleticare le papille.

Adesso ecco i veri motivi per dare una chance a questa serie.

Primo: gli opening credits. Il main theme è interpretato da Marian Wallentine e prodotto da Ben Frost. Una volta partito hai voglia di rivederlo subito e, soprattutto di sentire e risentire la canzone. La parte visual è stata creata dal regista Steve Small di Studio Aka che per un minuto tuffa lo spettatore in un cosmo pittorico buio segnato dalle linee del Vhs e dai glitch che marcano il limes tra uomo e tecnologia. Poco da fare, gli americani negli incipit fanno scuola e non ce n’è per nessuno.

Secondo motivo: è una serie sulle madri che hanno una dannata paura di esserlo anche quando sono programmate per diventarlo. Il controllo, la perfezione, fanno crollare anche un assemblato di diodi, figuriamoci un cuore umano. Madre non è l’androide di Scott in Blade Runner (e prima ancora di Dick) ha una missione che accetta per costrizione umana e che finisce per amare, rifiutare, amare ancora, in modo totalizzante.

È un personaggio che cresce e monta e se all’inizio è respingente, poi ti ammalia. È una Madre che non ha tante differenze con tutte le altre madri umane: lotta, combatte, cambia, si innamora e si tocca la pancia perché è lì che fa male tutto. Per chi arriva in fondo: la serie è stata rinnovata per una seconda stagione, quindi niente brutte sorprese, ci sarà un futuro.

Behind her eyes

Da quando è uscita questa miniserie su Netflix, l’hastag #WTFthatending (edulcorato: che diavolo di finale) ha iniziato a inquinare le acque. Ma la pubblicità, anche cattiva, è pur sempre pubblicità, e un trendtopic è bastato a far salire la curiosità (ora si dice hype) e a mantenere “Behind her eyes” alta tra le serie più viste del momento. Allora partiamo dalla fine (senza svelare nulla), ed ecco la verità: il finale è bello. Vi basti questo a sfatare il mito dei tweet.

Basta seguire il percorso come si deve, non cedere allo scrolling sul cellulare, non alzarsi dal divano troppo spesso per mangiucchiare, e la sorpresa all’ultimo atto non vi deluderà.

Il genere è il “sovrannaturale” incastrato col mistero (qualcuno ha fatto paragoni con Hitchcock, io non me la sento). La protagonista è Ewe Hewson, figlia di Bono Vox, quel genere di donna che riesce a mutare il fascino da bambina sperduta in un’aura da strega maledetta, e questo saltando da un fotogramma all’altro. Se proprio devo trovare un difetto in questa serie è forse nel personaggio maschile (Tom Bateman) eccessivamente lagnoso, sempre con gli occhi luccicanti, depresso, immobile anche nelle scene più focose, non tanto magnetico da giustificare tutto l’enorme giro che porta sempre a lui.

In sintesi: è una serie che si guarda con piacere, non parliamo di capolavoro, ma di un’opera godibile che finisce per acchiapparti fino all’ultimo capitolo. Cosa chiedere di più?

Your honor

Bryan Cranston, nonostante una lunghissima filmografia (ve lo ricordate? Era anche in “Argo”, “Total Recall”, “Contagion” e nel bellissimo “Little Miss Sunshine”) è ormai mister Walter White di “Breaking bad” (a proposito non l’avete visto? Recuperate e chiedete perdono).

Nonostante la fama in solitaria conquistata con la testa di serie di Vince Gilligan (a proposito Vince, spicciati con l’ultimo colpo di “Better call Saul” e vedi di non deluderci come hai fatto con “El Camino”) l’ottimo attore californiano, non ha ceduto a ruoli facili facili, amabili, ma ha tenuto per sé un buon angolo di nero.

Ed eccoci alla serie nuova di zecca, la trovate su Sky Atlantic, il titolo: “You honor” (“Vostro onore”) è dedicato al protagonista, Michael Desiato, giudice corretto e umano, vicino alla povera gente, che ha impostato la sua vita sul rispetto del prossimo e sulla trasparenza del suo operato.

Vive insieme al figlio il lutto per la perdita prematura di sua moglie, evento che farà da miccia per l’avvenimento che capovolgerà i suoi valori. La domanda che muove tutta la dinamica della miniserie (dieci puntate) è una: quanto male sei disposto a fare per difendere la tua famiglia? Forse il lato oscuro della nostra luna non è poi tanto lontano da quello luminoso, anche per un tipo come Desiato che mai avrebbe potuto immaginare di arrivare a un tanto così dal baratro pur di salvare quello che gli sta a cuore.

Ma quello che è interessante di questa serie è il “come” farà il giudice a tappare ogni buco, cancellare ogni prova, passo dopo passo, in una corsa dove la coscienza non ha neppure il tempo di mordere abbastanza il polso.

Il plot non è originale perché è tratto da “Kvodo”, una serie israeliana creata da Shlomo Moshiah che ha collaborato anche alla versione statunitense con Ron Ninio. Per il capitolo curiosità: nel cast c’è anche Michael Stuhlbarg, attore feticcio dei Coen (“A serious man) e due dei personaggi principali, Desiato e l’aspirante sindaco Charlie, spesos faccia a faccia, sono doppiati da Stefano De Sando e Pasquale Anselmo, voci calabresi tra le più importanti del settore. Viene da chiedersi mentre si mangiano le puntate: lo spirito di Desiato è poi così lontano dalla famiglia malavitosa che alita sulla città? Vedremo.

Succession

Per chi l’ha seguito l’attesa è snervante. Adesso pare, Covid permettendo, che riprenderemo il filo di questa saga familiare interrotta sul più bello. Dunque avete tutto il tempo per recuperare dai cassetti la saga dei Logan. In 3 stagioni (perché qui siamo rimasti) il creatore Jesse Armstrong dipinge un gran bel quadretto familiare. Al vertice della piramide c’è l’anziano tycoon, Logan Roy (Brian Cox), potentissimo proprietario di tv (che ricordano tanto la Fox), parchi a tema e navi da crociera.

A girargli intorno per strappargli lo scettro, contando i minuti che lo separano da una pensione sempre più lontana, i figli: Siobhan (si pronuncia Sciovan), Kendall (lui tenetelo d’occhio) e lo sciagurato Roman (Kieran Culkin, fratello di Macauly).

La serie è il ritratto dell’idiozia, una gara di caduta rapida verso il basso. Tutti componenti della dinastia, a rotazione, sembrano episodicamente uscire dalla mediocrazia in cui abitano dalla nascita, ma poi inevitabilmente vi riaffondano. In questa macedonia di rampolli malandati, c’è anche la vena comica, rappresentata dalla limpida stupidità di un paio di personaggi stralunati.

La serie ha fatto il pieno di Emmy, ha un bel cast, una buona sceneggiatura, soluzioni visive interessanti e soprattutto degli opening credit favolosi (ispirati a “The Game”).

Il tema è opera di quel geniaccio di Nicholas Britell, musicista già candidato all’Oscar per “Moonlight”(lui dice di ispirarsi nel suo lavoro a Rachmaninoff).

Consiglio la serie se non l’avete già vista, e vi avverto solo di una cosa: canticchierete il motivetto di apertura in qualsiasi ora della giornata, e quando non lo canticchierete vi risuonerà in testa e quando, di sera, sul divano, alla fine di una giornata di 47 ore direte: beh, vediamo quanto male riescono a farsi quei Roy oggi, non andrete avanti-veloce sulla sigla, anzi, con una scusa qualsiasi la rivedrete anche due volete di seguito. Lo so, avevo detto tre serie, ho mentito ma del resto potete fidarvi.