Il colosso dello streaming da anni punta sui prodotti in cui il pubblico diventa parte dell'impianto narrativo
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Dicono che ci siano cinque finali diversi. Contro uno ci si infrange dopo soli dieci minuti dall’inizio, sull’ultimo si rischia di girare per un’infinità senza trovare via d’uscita. Così il prodotto tv va a combaciare con la filosofia del videogioco, con le notti passate con “Silent Hill” e le istruzioni segrete scaricate da internet. Netflix cinque anni fa aveva lanciato il suo regalo per la fine dell’anno, Bandersnatch (costola di un Adamo chiamato “Black Mirror”), la prima serie interattiva in cui lo spettatore decideva, ad ogni bivio, che direzione prendere. A distanza di un lustro, ci riprova ma con i guantoni imbottiti e non a mani nude, per farsi meno male, visto che l’opera diretta da David Slade, non ha avuto l’onda lunga che ci si aspettava. Da poche settimane, sul portale della grande Enne rossa, il pubblico può giocare con “Kaleidoscope” che vede nel cast Giancarlo Esposito, indimenticato Gustavo Fringe di “Breaking bad” e “Better Call Saul”. La storia, vagamente ispirata al colpo da 70 miliardi di dollari in obbligazioni che avvenne nel centro di Manhattan durante l’uragano Sandy, con lo stile proprio dei caper movie, cattura a prescindere dalla decostruzione anche se più volte inciampa nei cliché.
La formula partecipativa non è così spinta come in “Bandersnatch”, perché qui abbiamo un unico corpo filmico spezzato in tronconi (di vari colori) che lo spettatore può vedere in ordine sparso senza che questo influisca sulla trama e il suo epilogo ma solo con l'impatto rispetto ai personaggi. In due parole, giocando con una costruzione di flashback, si dà l’illusione di un gioco che non è che un giro di mano a carte scoperte. “Kaleidoscope” mostra la modalità di costruzione di molte serie e film (e libri) con cui si edifica l’impianto complessivo, lo si frammenta di interruzioni (con rimandi al passato) per poi mischiare il tutto giocando con il montaggio parallelo e alternato. In questo modo cresce la tensione rispetto alla trama principale (che viene lasciata sospesa) e si dà spazio a personaggi collaterali che arricchiscono la personalità del protagonista. Niente di nuovo sotto il sole insomma, banalmente è quello che la letteratura fa da sempre con le trame dei gialli e dei thriller, soprattutto.
La voglia di far irrompere il destinatario (spettatore, lettore) in una storia modellabile, è antica. Chi ha buona memoria ricorda i librigame e, andando a ritroso, si arriva fino a Borges che, nel 1941, teorizzò l’esistenza dei romanzi interattivi tramite il personaggio di un suo libro, “Examen de la obra de Herbert Quain”. Un piccolo boom del genere si registrò, tra il 1972 e il 1980, con la serie di libri Tracker che ruppe gli argini e diede il via al filone che spiegò rami fino agli anni Novanta. Qualcuno ricorda finanche qualche numero di Topolino che aveva provato a regalare il brivido della scelta personalizzata. Oggi, nel catalogo del colosso dell’on demand, ci sono vari giochi interattivi, quiz perlopiù, in cui basta inquadrare un codice Qr e due giocatori possono sfidarsi in un Trivial incalzante (anche divertente) tra cellulare e telecomando. Negli ultimi anni si è puntato sui più piccoli o i giovanissimi, offrendo loro un carnet di storie flessibili, da Minecraft: Story Mode (cinque episodi - ogni episodio presenta almeno un bivio narrativo che influenza fortemente la storia) a Carmen Sandiego: Rubare o non rubare? (quattro finali principali) fino a Il gatto con gli stivali - Intrappolato in una storia epica. Come finisce la storia, in questi impianti narrativi, ha poca importanza, è il potere il vero gioco. Ma anche questa è un’illusione.