L'ultima stagione della serie italiana più bella di sempre saluta il pubblico con uno sprazzo di genialità che in tv sembra mancare sempre di più
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“Sono due i dilemmi con cui ci torturiamo: come fare a trattenere qualcuno che se ne vuole andare e come liberarsi di qualcuno che vuole rimanere”. Se ne voleva andare Boris, prima diventare quello che denunciava: un prodotto da consumare all’osso. Eppure è tornato, e ha fatto bene, perché di carne da mettere sul fuoco ce n'era ancora. La migliore serie italiana di sempre ha regalato una quarta stagione come Dio comanda, che chiude in un anello immaginario un quindicennio di belle trovate.
Non è frutto di un’operazione nostalgia, non è il meccanismo calcolato del riciclo, tanto di moda negli ultimi tempi, ad avere sospinto le macchine da presa a ripartire. Boris voleva parlare al suo pubblico ancora, abbracciarlo prima di sparire (accadrà?). L’abbiamo ritrovato un po’ ingrigito alle tempie ma non con meno smalto. Mattia Torre, forse tra i più geniali sceneggiatori italiani, una delle menti della serie, se n’è andato da qualche anno, lasciando un vuoto nel nostro cinema che difficilmente si colmerà. Allora Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, si sono messi sulle spalle la loro creatura, riportandola di peso sulla scena. Perché era giusto, perché c’era un’idea e perché ne avevano voglia.
Al cuore delle vicende non c’è più la soap smarmellata dagli improbabili intrecci famigliari, ma il contemporaneo mondo delle serie tv e delle piattaforme che scelgono i progetti solo se si incastrano nella serratura (lock) di certi algoritmi. René Ferretti ripone la boccia col suo pesce rosso sul set di un polpettone seriale a sfondo cristiano. La vita di Gesù, muove le speranze della storica troupe al completo, di Stanis La Rochelle (attore e produttore) che agita la tonaca del Messia perché le maniche sono troppo lunghe e di una Corinna (Maria Vergine), che calcola a mente per restituire alla camera espressioni intensamente attonite (e ci riesce anche bene). Ci sono tutti: stagisti, schiavi, ex assistenti in carriera, produttori in galera, attori sottostimati.
Una menzione d’onore la merita Corrado Guzzanti, divinità della scena, folle tra i folli, capace di interpretare lo squilibrio mentale di Mariano, un Giovanni Battista sulfureo, traducendolo in battute che sono perle da dare a tutti, porci compresi (“Ecco dovremmo guardare tutti le armi con gli occhi dei bambini”). Si muovono tra l’oscillar delle palme di una Gerusalemme più fasulla di una moneta da tre euro, gli attori calabresi (tra tutti il bravo Alessio Praticò) e le comparse assoldate in blocco dal produttore-ombra, tale zio Michele (Giuseppe Piromalli), chiacchierato personaggio dalle sfumature criminali, con ambizioni da produttore ma col gusto dello spettatore medio che alle trovate più cervellotiche preferisce gli spiegoni (“non lo famo ma lo dimo”). Alla fine, stremato e sorpreso, il boss getterà la spugna tornando ai suoi affari. “Questo mondo del cinema è troppo cinico, troppo violento”, dice. Come dargli torto.
In Boris 4 realtà e fiction s’incastrano in un continuo gioco di omaggi e rimandi. Se Mattia Torre non è più, qui si trasforma, si reincarna nella sua invenzione seriale che dona l’ultimo saluto in fiction anche a Roberta Fiorentini (Itala) scomparsa nel 2019. Ci mancava davvero Boris, perché ogni tanto c’è bisogno di un pizzico di genialità per non affogare nel mare ondoso dell'intrattenimento. Vi galleggiano in quantità le piattaforme, isole disseminate di allevamenti intensivi votati all’ultraconsumo (e all’ultraproduzione) audiovisivo con poca cura per la scrittura stritolata da parametri e classifiche. Il pubblico, protagonista di recenti vicissitudini reali da post-apocalisse, s’è rifugiato sui divani per sgomberare la mente da un mondo che è diventato il set di un fantafilm (adesso con sfumature belliche). Ora è gonfio, satollo fino alla nausea, di serie e film cotti e mangiati, di così buona fattura che è anche complicato capire se un’opera merita una chance, l'oblio o solo una risata.