La prima volta che al mostro venne dato un volto fu il 30 gennaio del 1992. Inverno pieno a Milwaukee, Stato del Wisconsin. Al 924 di North 25th Street arrivano le prime macchine della Polizia. Poi la Scientifica. Nastri gialli circondano il perimetro. Vengono portati dentro a un anonimo edificio sacchi neri per cadaveri. I residenti scendono in strada, qualcuno urla «io sapevo, lo sapevo che c’era qualcosa». Alcuni agenti hanno le mani sulla bocca, scendono a prendere aria, lì dentro non si respira. Lì dentro è l’appartamento di Jeffrey Dahmer. Un cucinotto, un piccolo soggiorno con un acquario, un tavolino. Più in là una camera da letto, il bagno. Una casa qualunque.

La prima (e ultima) intervista

«Ora è finita. Non ho voluto mai la libertà. Sinceramente, volevo la pena capitale per me stesso. Qui si è trattato di dire al mondo che ho fatto quello che ho fatto, ma non per ragioni di odio. Non ho odiato nessuno. Sapevo di essere malato, o malvagio o entrambe le cose». Jeffrey Dahmer ha trentuno anni quando viene condannato all’ergastolo. Rilascia una sola intervista. Dall’altra parte del registratore c’è Stone Phillips, reporter dell’Nbc. «Ora credo di essere stato malato – gli dice con la sua voce piatta -. I dottori mi hanno parlato della mia malattia, e ora mi sento in pace. So quanto male ho causato... Grazie a Dio non potrò più fare del male. Credo che solo il Signore Gesù Cristo possa salvarmi dai miei peccati... Non chiedo attenuanti». Non ne avrà di attenuanti. Il suo destino lo aspetterà armato di un manubrio da palestra nel corridoio del Columbia Correctional Institute di Portage.

Una lunga scia di sangue 

Di bell’aspetto, taglio di capelli corto, occhi chiari, aria placida, Jeffrey Dahmer aveva la sua foto sull’annuario della scuola, una famiglia borghese, un fratello più piccolo, una vita tranquilla scandita dalle solite tappe: il ballo della scuola, il college, un lavoro fisso all'orizzonte. Invece no. In tredici anni ha ucciso, smembrato e mangiato diciassette persone, tutte ragazzi giovani, alcuni giovanissimi, e ne ha conservato i resti nella sua stanza da letto.

Se non lo avessero acciuffato avrebbe continuato. Gli furono comminati 957 anni di prigione e il processo fu seguito da milioni di persone in tutto il mondo. La faccia del “cannibale” riempì i giornali e i notiziari per molto tempo. I dettagli degli omicidi furono restituiti al pubblico senza lesinare su nulla. Si seppe tutto delle vittime, su come erano state irretite, attirate, imprigionate, sedate e poi massacrate. Si seppe di come la polizia fosse stata a un passo dal fermarlo quando ancora tanti potevano salvarsi, ma non lo fece per superficialità e razzismo (il quartiere di Dahmer era abitato perlopiù da persone nere); si seppe di come i vicini si sgolassero al telefono con gli agenti pregandoli di andare a dare un’occhiata a quell’appartamento da cui usciva un fetore da cripta e di come (le telefonate registrate sono di dominio pubblico) nessuno mosse un dito. Si seppe che Jeffrey Dahmer era figlio di un padre che lo amava molto e di una madre debole, furono pubblicate le ricette delle venti pillole che la donna assumeva quando era incinta del figlio, per calmare l’ansia. Fu sviscerata la sua infanzia e la nascita delle prime pulsioni, fantasie dapprima poi realizzate per caso e continuate in modo orribile.

Dahmer fu abbastanza furbo da non farsi scoprire per anni. Mentiva e scoprì di essere bravo a farlo. Suo padre gli voleva un bene disperato e l’amore lo rese cieco e sordo. Sua nonna lo sopportava, su madre lo ignorava. Sbattuto fuori dall’Università e poi dall’esercito, Dahmer si ingegnò per trovare un posto in una società che era per lui aliena, a tratti un serbatoio di corpi da possedere e tenere con sé oltre la vita e la morte.

L'abisso e l'epilogo

Fu sollevato quando gli strinsero le manette ai polsi. «Mi sento liberato» disse e rinunciò ad accampare difese. Si dichiarò colpevole di tutto e aiutò la polizia a trovare i corpi o quello che ne restava. Infine l’epilogo e la manta del silenzio su una storia terribile. Netflix ha rivangato quei tempi bui nella serie Dahmer - Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer che ripercorre, filo per segno, la vita del serial killer del Wisconsin che sul piccolo schermo ha il volto di Evan Peters. Dieci puntate (non avare nella durata) che seguono il protagonista nella sua discesa verso l’abisso, un fondale popolato dai mostri della sua mente sospesa tra lucidità e follia e crudeltà estrema.

Cinque registi dietro la macchina da presa

Dietro la macchina da presa ben 5 registi tra cui Jennifer Lynch (figlia di David), e poi Carl Franklin, Clement Virgo, Paris Barclay, Gregg Araki. Richard Jenkins interpreta Lionel Dahmer, con la consueta bravura. La serie ha un passo lungo, scorre il sangue ma il racconto si propaga con lentezza, a volte estrema lentezza, e questo crea in alcuni passaggi la giusta tensione, in altri quasi stenta, ma chi cerca un crime fatto come si deve non resta indifferente o deluso. La materia è oscura, come poche, supportata da una robusta aderenza ai fatti che furono, tanto terribili da superare la finzione scenica di qualunque horror di buona fattura. Peters nel ruolo di Dahmer mostra quello che sa fare, resta il più possibile sotto la linea, a volte così eccessivamente da risultare monocorde più che algido.  

I social cannibali

La serie ha riaperto anche vecchie ferite. La sorella di una delle vittime ha parlato di speculazione da parte della rete che per fare ascolti non ha risparmiato altro dolore alle famiglie torturate dalla perdita dei loro cari. Intanto sui social il mostro è diventato trend topic, la macelleria mediatica degli anni Duemila pasteggia sulla figura del serial killer facendone un meme, scavando nei meandri della cronaca nera a caccia delle foto dell’epoca, trovando ispirazione per i costumi di Halloween. Un documentario, pubblicato sempre su Netflix, restituisce volti e voci originali. Si mangia sul cannibale, insomma, come in ossequio a una stramba legge del contrappasso.