Il sognatore si sveglia in un sogno. La paura ha un sapore lontano, è una memoria, è un fiume elettrico a basso voltaggio che in qualche modo ci induce al movimento. Il tempo riacquista il suo senso universale, si dipana ovunque, non corre dritto e in avanti. C’è un uomo, vestito riccamente. È Astolphe de Custine, nobile francese (autore di "Lettere dalla Russia"). Sarà il nostro Virgilio all’interno del Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo che diventa un labirinto di dimensioni legate da una meraviglia assoluta, succulenta. Il sognatore è lo spettatore, siamo noi, che apriamo lo sguardo su questo corridoio, come se nascessimo, come se ci svegliassimo, come se dormendo, vivessimo davvero.

Il miracolo lo ha compiuto al cinema Aleksandr Sukorov con il suo film impossibile “Arca Russa” (visibile su Prime nella sezione CG Collection) presentato a Cannes nel 2002. Impossibile perché è uno dei rarissimi film interamente girato con un unico, lunghissimo, piano sequenza che ha visto sul set 4.500 persone, tra cui 867 attori, 3 orchestre e 22 assistenti alla regia. Non c’è trucco o inganno. Non è il piano sequenza del bellissimo “Birdman”, di un Alejandro G. Iñárritu che fa tagliare di nascosto e a meraviglia; è più vicino al bellissimo “Victoria” (girato dal tramonto all’alba), meno a “1917”, di Sam Mendes, pieno di stacchi fantasma.

Sukorov non è un prestigiatore, è un mago. Quello che compie è un numero alchemico, potrebbe essere l’incanto con cui Plotino descrive nelle "Enneadi" le molte cose che attirano e ingannano senza nessun altro artificio. “Arca Russa”, è un'ipnosi, un canto sotterraneo che circuisce la mente, è una mano sulla schiena che ti spinge ad andare anche se non hai un corpo. La bellezza sfolgora negli angoli del sontuoso Ermitage, nei ritratti, nelle bambine farfalle, nel pranzo degli zar, nella fretta dell’imperatrice che svanisce nella nebbia finché diventa nebbia anch’ella, con il suo mantello di broccato.

Il sognatore può perdersi senza timore, nessuno gli farà del male, anche se la strada si arrotola su sé stessa e fa perdere l’orientamento, la certezza. Anche se la folla diventa un’onda che sciama via da un gran ballo a corte, ignorando quegli occhi che osservano da un altro mondo. Sukorov racconta trecento anni di storia russa con l’arte della pazienza e del rischio, a bordo di un’Arca che salva dai flutti di un mare color ferro, le preziosità del passato, per serbarne il ricordo, salvarlo dalla caducità del mondo reale, in attesa che la tempesta si plachi.

Il mare è tutto intorno. E siamo destinati a navigare per sempre, a vivere per sempre.

Per compiere questa impresa titanica, il regista si fa attore invisibile, in soggettiva segue il cinico aristocratico, burbero a tratti, che più volte cerca di congedarsi, tagliar corto. Il marchese francese sembra non gradire il ruolo di guida, non desidera accanto quell'ospite che s’è svegliato nella visione di tre secoli serviti in un bicchiere da tirare in un unico sorso. La placida curiosità del seguace (siamo noi, è Sukorov, chi è? Importa?) riesce però a scalfire la scorza dura di de Custine, che ci conduce al finale straordinario, potentissimo. Lui è parte di un vascello di fantasmi da cui nessuno può scendere. Le ombre restano vive solo al suo interno, preservate in un'eterna bellezza, nell'attimo in cui la loro luce è all'acme.

 Le autorità vogliono le ghiande, non la quercia. Di cosa si nutra l’albero della cultura non lo sanno né lo vogliono sapere. Ma se l’albero cade, allora finisce anche il loro potere. E quello che non capiscono è che dopo non ci sarà più niente.

In un unico grande respiro, Sukorov ci porta in apnea nella bellezza di un’arca che culla nel ventre Canova, Cézanne, van Dyck, Tintoretto e Rembrandt, naviga nel presente senza indugiare, si lascia andare a critiche politiche, mentre il vociare diffuso di una nobiltà in festa, ci porta quasi a girare il capo per guardare chi è dietro di noi, anche se siamo solo seduti a godere di un film ultraterreno. L’autore ci veste di bruma, mentre la Mélodie Antique Francaise di Tchaïkovski appoggia sulle nostre spalle uno scialle, perché il freddo che arriva dalla finestra che dà sul mare, portale della realtà che ci aspetta oltre l'orizzonte, non geli il nostro addio.