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Risaliamo alla genesi, alle premesse teoriche, ideologiche e programmatiche su cui si è fondato il partito. Esso è sorto sui prodromi dell’ulivismo, un approccio che non si distanziava dal blairismo e dal moderatismo di sinistra, anzi ne era fortemente influenzato. L’impianto teorico consisteva, all’incirca, in determinate premesse: la globalizzazione nella sua fase espansiva avrebbe potuto elargire i suoi frutti a tutti, superando perciò le distinzioni di classe che le formazioni socialiste tradizionali avevano individuato non soltanto come fondamento delle disuguaglianze, ma anche come bastioni ai quali affidare carica politica per ottenere conquiste sociali come il welfare, la sanità pubblica e gli aumenti salariali. È quello che è avvenuto nel primo dopoguerra e durante “i trenta gloriosi” fino a giungere agli anni ’70, fino a quando, cioè, non arrivò la crisi energetica e si registrò un radicale riassetto della politica mondiale ed europea. Alle rivendicazioni politiche e sociali di cui le classi lavoratrici, gli studenti e gli emarginati si facevano portatori, è seguita un’epoca di riflusso, in cui la pacificazione, e non più il conflitto (politico, s’intende), divenne il mantra della sinistra.
Cos’è avvenuto poi, da allora, che ha mutato così radicalmente le sorti della Sinistra, dell’Europa e del mondo?
Una nuova epopea ha allignato nel senso comune della società intera, e la Sinistra non è stata in grado di contrapporvi una visione autonoma, finendo per entrare a piè pari nel campo egemonico avversario. L’idea era questa: visto che la modernità, la globalizzazione nel suo incedere verso la crescita, fa propria una promessa di ricchezza espansiva che si ritiene capace di dispensare benefici per tutti, superando sia l’“uno su mille” morandiano, che la teoria del conflitto sociale marxiano, bisognava “ingentilire” il suo protrarsi, non frenarla. Ingentilire il capitalismo, questo divenne l’obbiettivo, non metterlo in discussione nelle premesse alienanti e usurpatrici. Se nella globalizzazione avrebbero vinto tutti, frenarla significava generare una sconfitta collettiva. Così il blairismo appare l’unica strada da contrapporre al liberismo di Reagan e della Tatcher, e, con qualche anno di ritardo come in ogni corso storico, questa impostazione trovò cittadinanza anche nella sinistra italiana.
E perché, adesso, ritieni sia antistorica questa impostazione di fondo?
Senza fare il periplo, molto semplicemente: è cambiata la fase. Sono mutati i rapporti di produzione, di scambio, di accumulazione e distribuzione della ricchezza, i meccanismi di produzione della stessa. Siamo nella fase calante della modernità, in cui la modernità ripiega su sé stessa ed allenta i nessi con le conquiste sociali. La globalizzazione mostra le sue spine, i suoi fallimenti (come ci illustra Franco Voltaggio nel suo “L’antigone tradita, una contraddizione della modernità: Libertà e stato nazionale”) e le sue contraddizioni soggiacenti alle premesse stesse, (come ci ammonisce, ancora più saggiamente, Ulrich Beck nel suo “La società del rischio”). Ecco perché l’ipotesi moderata, quella che spiana la strada al corso autonomo ed espansivo, autoregolato dall’economia, apportando soltanto piccoli aggiustamenti per la distribuzione, non funziona più.
Proprio questo significa essere “antistorico”: “che trascura o contrasta il significato degli eventi, inefficace o controproducente nei confronti delle esigenze politiche e sociali del momento”. Lo hanno capito le destre, che mutano il loro primigenio aspetto liberale e poi liberista, per assumerne uno protezionista, nazionalista ed, in alcuni casi, autarchico (oltre che intollerante, nella storica, assurda, ricerca di un nemico che si identifica sempre con gli strati più deboli della società, mai con chi realmente detiene il potere e lo utilizza a discapito delle moltitudini). Lo hanno capito i populismi, che, a modo loro problematizzano, seppure senza fondamento ideologico, la fase attuale. Fa fatica a comprenderlo la Sinistra, fatta eccezione di pochi casi e di rari dirigenti. Per questo motivo, la soluzione è di natura radicale e non può sintetizzarsi nella creazione di un PD senza Renzi. Urge una nuova radicalità a Sinistra: bisogna rimettere in discussione, stravolgendola, l’attuale impronta ideologica su cui si impernia la sinistra nel belpaese. È esattamente ciò che avviene in Europa, se si guarda Podemos, il Labour di Corbyn, Syriza, la gauche di Mélenchon, addirittura il movimento straordinario di Bernie Sanders negli Usa e la sinistra portoghese. Una proposta radicale, che ritrovi il suo senso nelle battaglie in difesa del lavoro che c’è e nella rivendicazione del lavoro che non c’è, che riannodi i legami sfilacciati con il suo popolo, con le periferie del mondo, che rilanci la spesa pubblica, che proponga un referendum costituzionale sulla estromissione del pareggio di bilancio in costituzione (non eravamo obbligati ad inserirlo in Costituzione dagli accordi internazionali, ma la politica empatica verso i parametri finanziari fissati dalle multinazionali e dalle banche è sempre molto zelante quando si tratta di fare gli interessi dei forti), specie nella fase in cui si registra un aumento del debito con diminuzione del deficit! Sarebbe a dire, nella fase in cui con i tassi di interesse tra i più bassi della storia noi non facciamo investimenti ed accumuliamo avanzi primari di spesa. Tutto questo, a mio avviso, deve guidare la sinistra di domani. Non l’assorbimento di classe dirigente ma il ricongiungimento, la riconciliazione con un popolo perlopiù disilluso dalla politica, senza più voce ma che ci indica, oramai a gesti, un bisogno mai estinto di essere difeso e rappresentato.
Come leggi l’attuale assetto del PD, essendo stato anche tu membro del Partito in passato?
Assolutamente anomalo. Il centralismo democratico è un principio che vale se c’è una condivisione dei valori di fondo. Se si guarda all’esperienza del PCI, si nota molto facilmente questa caratteristica: sebbene le strategie, le modalità di azione e di attuazione del programma fossero variegate, il principio di fondo era comune: creare una società socialista. Attraverso il riformismo, la rivoluzione, l’assalto al cielo, in mille modi. Con programmi di minima eterogenei, ma con il medesimo programma di massima (per richiamare il maestro dell’ortodossia Karl Kautsky). Nel Partito democratico rinvengo invece un paradosso: abitano lo stesso soggetto politico persone che la pensano in modo diametralmente opposto su quasi ogni cosa, fanno partito assieme. Io credo, invece, che se partito ed ideali divergono, se si distanziano sensibilmente, due sono le possibili scelte: o rimanere fedeli al partito o ai propri ideali. Una ipotesi, per sillogismo aristotelico, esclude l’altra. Per cui, condivido la riflessione di Caldarola di pochi giorni fa: inutile perdere tempo, ricostruiamo la Sinistra per sconfiggere i veri mali dell’epoca.
Pa.Mo.