In Calabria la ribellione contro il decreto sicurezza è un venticello politico che soffia timidamente, mentre nel resto d’Italia assume ogni ora che passa l’intensità di una bufera che rischia di incrinare in maniera irreversibile i rapporti nella maggioranza di governo.
Qui giù, invece, in pochi hanno colto la palla al balzo. Lo ha fatto il sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà, che ha aspramente criticato le nuove norme in materia di immigrazione, schierandosi idealmente al fianco dei colleghi Leoluca Orlando (Palermo) e Luigi De Magistris (Napoli). Lo ha fatto anche il presidente della Regione Mario Oliverio, che da San Giovanni in Fiore, dove ha l’obbligo di dimora per il suo coinvolgimento nell’inchiesta Lande desolate, ha espresso il suo sostegno «agli atti di disobbedienza annunciati e praticati da diversi sindaci contro un provvedimento discriminatorio».

 

Gli altri, in prevalenza esponenti politici come il responsabile organizzativo del Pd Calabria, Giovanni Puccio, sono andati in ordine sparso, ma non c’è stata sinora una risposta compatta da parte degli amministratori calabresi del centrosinistra, che rischiano di mancare anche questa occasione per tentare di risalire la china e recuperare un po’ di visibilità. È la conferma di una catalessi politica forse irreversibile che schiaccia senza speranza il futuro della sinistra, non solo in Calabria.

 

Eppure la questione che ruota intorno al decreto sicurezza voluto da Matteo Salvini è tutt’altro che secondaria, perché rappresenta un vero e proprio spartiacque ideologico tra chi di immigrati non ne vuol sentir parlare in alcun modo, anche se scappassero con i vestiti in fiamme dall’eruzione di un vulcano, e chi, invece, ritiene che esistano motivi validi che in molti casi impongono l’accoglienza.
Che il suo decreto faccia acqua da tutte le parti lo sa anche Salvini. Perché non ha alcuna logica spingere nella clandestinità migliaia di immigrati regolari, fino a poco tempo fa negli Sprar, impedendo loro di iscriversi all’anagrafe comunale, come prevedono le nuove norme. Senza carta d’identità non potranno più lavorare, né mandare i figli a scuola, non potranno più fruire dell’assistenza sanitaria né pagare tasse e contributi.

 

L’unico obiettivo di norme di questo tipo è la deterrenza, che per Salvini non è comunque un obiettivo da poco. Ma al di là dei giudizi etici, che pure potrebbero (e dovrebbero) avere il loro peso in una questione che riguarda decine di migliaia di persone, in questa storia quello che difetta è il buonsenso. Anche sposando pienamente le tesi anti immigrati della Lega, e di riflesso dei Cinquestelle, non si capisce che vantaggio possa offrire in termini di sicurezza una legge che, al contrario, ingrossa le sacche di illegalità, spingendo i nuovi “invisibili” verso il sottobosco della criminalità. Nessuno degli extracomunitari a cui viene negata l’accoglienza per motivi umanitari di cui fino ad oggi godevano se ne tornerà a casa o si presenterà ai centri per il rimpatrio, luoghi di detenzione dove entri e non sai quando e come esci.

 

Nessuna di queste persone, clandestini da un giorno all’altro, deciderà di lasciare l’Italia. Più probabile, invece, che comincino a spacciare, a prostituirsi, a rubare o, nel migliore dei casi, a vivere alla giornata cercando di racimolare qualche spicciolo all’esterno dei centri commerciali. Senza contare i bambini, che improvvisamente diventano invisibili come i genitori, senza medico di base, senza vaccinazioni obbligatorie, senza scuola. Cosa abbia a che fare uno scenario come questo con la “sicurezza” non si capisce.
Opporsi e stigmatizzare sarebbe facile, ma ormai in Calabria la sinistra non riesce neppure a tirare un calcio di rigore.

 

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