Finite tutte le scuse possibili e immaginabili, la maggioranza che governa Regione Calabria si gioca l’ultima carta: il complotto. Apre le danze il presidente f.f. Nino Spirlì che contro il lockdown per la Calabria disposto dal governo Conte promette «battaglia nel nome di Jole» e tuona «contro il tentativo di piegare la schiena ai calabresi». Motivo? Non si sa.



La sua Lega va oltre, si lagna di «un atto politico», poi si fa scappare la mano e parla di «scelta inquietante, forse fatta per giustificare l'azione autoritaria di voler governare la Regione in modo parallelo attraverso la proroga del decreto Calabria». A ruota, seguono deputati, senatori e consiglieri regionali di tutto il centrodestra che come un coro di prefiche piangono, urlano, protestano e – con diverse modulazioni – ripetono: i numeri dei contagi sono bassi rispetto alle altre regioni zona rossa, le terapie intensive non sono sature, non c’è ragione di chiudere la Calabria.

Le tre bugie sul lockdown

Peccato che poco o nulla di questo sia vero o nella migliore delle ipotesi è raccontato in modo bugiardo. Primo, da giorni il governo ha chiarito che – finalmente – le misure di contenimento dei contagi non vengono definite a spanne o di pancia, ma sulla base di 21 parametri scientifici – dal numero di contagi, all’indice di trasmissione, alla capacità sanitaria - elaborati per definire la “classificazione complessiva del rischio” e “lo scenario”. Entrambi condannano la Calabria. E –secondo- che i numeri siano importanti ha finito per confermarlo anche la Regione, con la modifica in corsa del bollettino del 3 novembre. Già dalla mattinata, la Calabria era “candidata” alla zona rossa.


Ecco che, casualmente, il bollettino regionale, che alle 17 riportava 26 ricoveri in terapia intensiva, alle 20 ne indica solo 10. Non per magia o improvvisa guarigione, ma perché improvvisamente si distingue fra pazienti intubati e con ventilazione assistita e dal 3 novembre solo i primi hanno “diritto” ad essere considerati “ricoverati in terapia intensiva. «Tale modifica è stata effettuata a seguito delle comunicazioni pervenute dall’Azienda ospedaliera di Reggio Calabria e dall’Azienda ospedaliera di Cosenza» si è limitata a dire ufficialmente la Regione. Ufficiosamente invece ha scaricato la colpa sugli ospedali e sui primari, che avrebbero manipolato i dati per avere maggiori dotazioni e personale. Come se ne facessero personale collezione.



In realtà, mezzi e uomini servono e –terza questione – ad ammetterlo ai microfoni di LaCnews è stata l’assessore regionale Sandra Savaglio, che candidamente ha affermato «Ospedali pieni in Calabria? Questa situazione si poteva prevedere, molti speravano che non succedesse e invece è successo». Parole sue. E che dimostrano forse più di ogni altra cosa da dove salti fuori la decisione del governo di mandare la Calabria in lockdown.

Contagi ridotti, ma la sanità disastrata pesa di più

È vero i circa 3900 casi calabresi in Piemonte si registrano in un giorno e la Lombardia quotidianamente li doppia. Ma 1700 chilometri più a Sud bastano per rischiare di far collare un sistema sanitario gracile, impoverito da oltre un decennio di commissariamento. Che però -c'è da dirlo - non piove dal cielo, non è un complotto, ma è stato dettato da una voragine debitoria causata da lustri su lustri che hanno visto gli ospedali convertiti in prateria per i clan, oltre che un suq di nomine a richiesta, forniture per gli amici e promozioni elettorali. Gestito con un abaco strabico, guardando più ai conti che al bisogno di salute, al netto dell’avvicendamento alla guida della struttura, il regime commissariale ha finito solo per tagliare nel pubblico per poi pagare il privato convenzionato, fino a raggiungere il poco edificante risultato di non riuscire a rispettare neanche i Lea, i livelli minimi di assistenza, mentre il debito ha continuato a lievitare e si è dovuto procedere al commissariamento delle Asp perché infiltrate dai clan.

La fase 1 dell'emergenza 


Questa era la situazione di partenza a marzo e questa è la situazione oggi. In mezzo però, c’è tutta la fase 1, durante la quale il governo ha dimenticato di avere in mano il settore in Calabria e individuato l’allora governatrice Jole Santelli come massima autorità sanitaria, cui ha dato mano libera e un assegno in bianco per procedere con assunzioni, acquisto di materiali e apparecchiature, rafforzamento dei reparti. Annunci ne sono arrivati tanti, promesse pure, si è vaneggiato di 400 terapie intensive in più, ospedali da campo, centri Covid, monitoraggio sulle Rsa, assunzioni, 37 Usca attive su tutto il territorio, infermieri di comunità e persino scolastici. Risultati pochi, nella migliore delle ipotesi poco chiari e di certo insufficienti. E non più tardi di una settimana fa, il presidente facente funzioni Nino Spirlì si premurava di ringraziare Puglia e Campania per i tamponi gentilmente concessi a Regione Calabria, che evidentemente a 8 mesi dall’inizio della pandemia non è neanche in grado di programmare le forniture.

I compiti a casa che nessuno ha fatto


Tra le linee guida dettate dal ministero della Salute e la realtà ci sono – fra le altre cose - la realizzazione di un centro Covid regionale, di Covid-hotel, l'assunzione di 500 unità di personale medico e paramedico a tempo determinato e indeterminato, 136 nuovi posti di terapia intensiva e di 134 di sub-intensiva che mancano all’appello.



Tra giugno e luglio, le ha messe nero su bianco il commissario ad acta per la sanità, il generale Saverio Cotticelli. Ma fra bisticci, rimpalli di responsabilità e frecciate a mezzo stampa, l’unica cosa certa è che tutto è rimasto sulla carta. E che già da una settimana, per reggere l’impatto della pandemia, con ordinanza di Spirlì sono stati sospese visite specialistiche e interventi non urgenti negli ospedali pubblici. Con buona pace delle urla dei medici, che già alla fine del primo lockdown hanno denunciato come il blocco delle attività ordinarie abbia portato a diagnosi e interventi tardivi e interruzioni di cure, mentre alle Asp arrivavano i conti degli interventi urgenti dirottati sulla sanità privata.

Giù le mani dalla sanità 


Ecco perché insieme al lockdown, per la Calabria arriva un nuovo Decreto, che di fatto esautora la Regione da qualsivoglia ruolo nella gestione della sanità. Per i prossimi tre anni, non avrà voce in capitolo. A tutto – risanamento dei compiti, appalti, programmazione sanitaria e socio-sanitaria regionale, nomine dei manager, piano Covid e piano triennale straordinario di edilizia sanitaria e di adeguamento tecnologico della rete di emergenza, ospedaliera e territoriale della Regione – penserà la struttura commissariale.

Il centrodestra promette guerra, ricorsi, denunce, proteste e lettere a Mattarella. Eppure, fino all’ultimo, la principale preoccupazione della Giunta sul fronte sanitario è stato tentare il blitz sulle nomine dei manager sanitari in scadenza, prima di essere esautorata dal nuovo decreto Calabria. Ai calabresi rimane il conto, da pagare con un lockdown e tutte le sue conseguenze.