Quando parliamo di politica, bisogna chiedersi se questa debba sempre assoggettarsi all’etica o ci sono eccezioni? Quando decretiamo, dobbiamo porci a monte guardando dal generale al particolare, oppure dobbiamo scendere a valle?

Il problema etico-morale sorge spesso nel momento in cui bisogna garantire la sopravvivenza della società e la convivenza: così, emerge la necessità di distinguere tra bene e male, tra ciò che utile e ciò che è dannoso, ciò che costituisce l’essenza del vivere e ciò che è superfluo.

I discorsi sulla questione morale che sono stati riproposti in modo sempre più frequente nel nostro Paese richiamano il vecchio, ma sempre attuale, tema del rapporto fra morale e politica. Il fulcro della questione è sempre lo stesso: la distinzione fra ciò che è moralmente lecito e ciò che è moralmente illecito.

Per quanto, dunque, la questione morale si ponga in tutti i campi della condotta umana, quando viene posta nella sfera della politica assume un carattere particolarissimo.

Se mai occorre precisare che, quando si parla di morale in rapporto alla politica, ci si riferisce alla morale sociale e non a quella individuale, alla morale cioè che riguarda azioni di un individuo che interferiscono con la sfera di attività di altri individui e non a quella che riguarda azioni relative, per esempio, al perfezionamento della propria personalità.

L’etica tradizionale ha sempre distinto i doveri verso gli altri dai doveri verso se stessi. Nel dibattito sul problema della morale politica vengono in questione esclusivamente i doveri verso gli altri.

Dal passato, ritornano sul tema, due figure sempre attuali. Primo fra tutti Platone che ha sempre inneggiato alla politica come profondamente integrata nella vita di ogni singolo e come unica via per la realizzazione collettiva del “sommo bene”.

 

Contro Platone, a distanza di oltre mille anni, si scaglia con tutto il suo vigore politico Machiavelli, il quale sostiene un concetto di politica utilitaristica che non può e non deve sottomettersi alla morale.

Da che parte starebbero oggi i due filosofi se potessero commentare le strategie politiche messe in atto da coloro che governano il nostro paese?

La filosofia greca ci insegna che per dirimere una qualsiasi questione è bene distinguere il fine dai mezzi; questo stesso concetto applicato alle nostre riflessioni sulla politica dovrebbe guidarci nell’analisi dei due filoni di pensiero portati avanti da Platone e Machiavelli.

Macchiavelli e Platone intendono i rapporti che caratterizzano uno Stato in modo completamente differente e ricorrono a metafore diverse per rappresentarli.

Entrambi i pensatori fanno riferimento alla metafora dell’uomo e della sua struttura intrinseca. Tuttavia mentre l’uno volge la propria attenzione all’aspetto materiale che deve essere retto con forza per evitarne il deperimento; l’altro si focalizza su quanto di eterno alberga nell’animo umano, delineando, come punto di partenza, una concordia civile tipica di un’educazione sociale, in base alla quale potranno emergere i tratti armonici della città perfetta.

 

Secondo Platone, il fine del potere politico è il bene cioè la politica stessa è un mezzo volto a garantire la bontà della vita. Per raggiungere tale fine è opportuno utilizzare mezzi che siano a loro volta adeguati e per questo entra in gioco la virtù dell’uomo politico ideale. Dunque come prima tappa essenziale per creare una concordia civile c’è l’educazione sociale, infatti grazie ad essa potranno delinearsi i tratti armonici della città perfetta.

 

Per Machiavelli, invece, non esiste alcuna razionalità che governa il corso del mondo e la virtù è la capacità di volgere le circostanze a nostro favore. È evidente come il fine del potere, per Machiavelli, non sia il bene in sé: si tratta di un concetto troppo astratto e fuori dalla portata delle vicende umane; il potere politico deve garantire il mantenimento del potere stesso al fine di contenere il disordine.

 

Il “doveroso rinnovamento” che attiene ad uno Stato duraturo nel tempo si contrappone a tutto quanto detto da Platone. E’ proprio il desiderio insito nell’animo di ogni uomo, secondo Machiavelli, a non permettere al Principe di poter coltivare la sua bontà e virtù, che anzi appariranno dannose nella gestione del potere. Machiavelli risolve tutto nella subordinazione della virtù all’utile del Principe e della città.

Nel dialogo platonico si nota, invece, come la giustizia e la correttezza dello Stato e delle sue funzioni non può che derivare dalla gestione oculata di buoni rapporti fra il tutto e le parti. Il buon governante è colui che sa mantenere questa essenziale concordia fra il tutto e le parti proprio in virtù del fatto che, grazie ad una ferrea educazione, è riuscito a sopire il desiderio nei confronti delle cose materiali e delle meschinità che attraggono il popolo, il pléthos.

Inoltre, entrambi gli autori ragionano sul concetto di menzogna che assume, tuttavia, connotati diversi. Per Machiavelli la menzogna appare nel Principe come una qualità e una dote necessaria che egli deve possedere e imparare, se desidera mantenere a lungo il potere. Essa è necessaria per limitare la natura stessa dell’uomo, avendo come fine quello di salvaguardare il potere del singolo.

Platone, all’opposto, crea una stretta relazione fra menzogna e utilità, intendendo quest’ultima però nell’accezione di “ciò che è finalizzato al bene della città, e dunque per gli individui che la abitano”, e nella convinzione che la natura umana possa essere educata e assoggetta al Bene e condotta alla Felicità a partire dalla sua anima.

 

Anche se la Politeia (intesa come organizzazione del bene pubblico) di Platone è sicuramente un modello irrealizzabile perché troppo ambizioso e moralmente elevato e non risulta concretamente realizzabile nella realtà storica, tuttavia si dovrebbe considerare come referente di perfezione cui far tendere le singole realtà di fatto; in essa la virtù è proprio la caratteristica etica fondamentale del sovrano-filosofo.

È vero che ci sono istinti malefici ma vanno dominati: proprio qui risiede la saggezza che si cerca di far coincidere con l’utilità.

Questo è l’insegnamento che ci viene da molto lontano, una lezione di politica che rimane sempre utile perché aderente alla realtà.

Pertanto, uno sguardo agli insegnamenti di Platone e alla preminenza della mente piuttosto che del desiderio sarebbe, oggi più che mai, auspicabile e opportuno.

La politica è un’arte troppo grande che richiede sacrifici ed espone a rischi già per il solo fatto che grazie ad essa “pochi divengono arbitri del destino di tutti”.