C’è un’Italia che si svuota e si spegne, come una candela dimenticata in una stanza chiusa, soffocata dall’assenza di ossigeno. E ce n’è un’altra che implode, risucchiata in un gorgo di illusioni e false promesse, dove la modernità non salva, ma inganna.
Non c’è progresso, ma un inganno. Non c’è sviluppo, ma un declino mascherato da efficienza.
È il Paese della precarietà, del lavoro che non riscatta, della povertà normalizzata, della classe media sacrificata sull’altare di un capitalismo senza volto.
I numeri non mentono. L’ultimo dato dell’Istat sull’inflazione in Italia non è solo una fredda cifra, è il suono di un vetro che si crepa, lentamente, fino a frantumarsi sotto il peso dell’indifferenza. È il sintomo di una malattia che consuma la vita quotidiana, un veleno che scorre nelle vene dell’economia e si insinua nelle case, nei negozi chiusi, nei frigoriferi sempre più vuoti.
«Il progresso è una catastrofe che si abbatte sulle cose che erano prima», scriveva Elsa Morante ne La Storia.
Oggi, sotto le macerie di quel progresso, non c’è futuro, c’è solo un presente che si sgretola sotto i piedi di chi lavora.
Ci sono contratti collettivi scaduti da anni. Ci sono lavoratori pubblici che attendono un rinnovo come un condannato attende la grazia, e quando finalmente arriva l’annuncio dello Stato è un insulto travestito da soluzione: il 6% di aumento salariale.
Un’elemosina che non sfama, ma umilia.
Come può uno Stato che non paga dignitosamente i suoi dipendenti pensare a un salario minimo per tutti?
È solo propaganda, ipocrisia, un gioco di prestigio in cui la miseria viene dipinta come una transizione necessaria, il sacrificio come un dovere.
Il lavoro in Italia non è più una via di riscatto, è diventato una gabbia senza sbarre, con una porta sempre aperta che conduce soltanto a un vicolo cieco.
L’inflazione erode gli stipendi con la voracità di un incendio che divora ogni speranza, lasciando dietro di sé solo cenere e disperazione.
«Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta», scriveva Paul Valéry. Oggi il futuro non è più nemmeno una promessa, ma una negazione.

Per decenni, il Sud è stato il serbatoio umano del Nord.
Migliaia di giovani partivano con una valigia di cartone piena di speranze e tornavano con vite nuove e il cuore spezzato. Il Nord cresceva, il Sud si svuotava.
Oggi non c’è più nulla che attenda chi parte. Non c’è più il miraggio di una vita migliore, ma l’ombra lunga di un’esistenza precaria. Stipendi da fame, affitti inaccessibili, città che divorano e sputano via chi non può permettersi il prezzo della sopravvivenza.
Nel frattempo, il Sud muore. Le finestre si chiudono una dopo l’altra come palpebre stanche, i vicoli si fanno muti come chiese abbandonate, mentre le strade si svuotano e i muri si sgretolano, testimoni silenziosi di un’agonia che nessuno vuole vedere.
"Ci siamo abituati al peggio. Ma il peggio non ha limiti", scriveva Leonardo Sciascia.
Le famiglie, che un tempo spingevano i figli a cercare fortuna altrove, oggi devono sostenerli non solo moralmente, ma anche economicamente.
Non siamo più un popolo che emigra per costruire, ma per sopravvivere. E spesso non ci riesce.
Non è il caso a disegnare questo declino. È un suicidio programmato.
Un progetto di disintegrazione che ha spezzato la classe media, demolito le certezze e sacrificato intere generazioni sull’altare di un capitalismo cieco, incapace di costruire altro che disuguaglianza.
Pasolini l’aveva previsto, lo sviluppo senza progresso non ci avrebbe liberati, ma ci avrebbe trasformati in servi di un’illusione.
Hanno svuotato le piazze, raso al suolo la cultura popolare, sostituito il senso del sacro e di comunità con un catalogo di offerte.
Ma la fame, quella vera, non si sfama con i saldi.
Uno Stato che paga i suoi servitori con l’elemosina e poi predica giustizia sociale è come un ladro che piange davanti alla casa che ha appena svaligiato.
I politici che oggi parlano di soluzioni sono gli stessi che hanno costruito il problema.
Parlano di crescita mentre seppelliscono le speranze sotto montagne di debiti e promesse non mantenute.
Il Sud non è una condanna, è una risorsa, ma va trattato come tale.
Servono ferrovie veloci, scuole, ospedali, imprese che non debbano chiudere dopo poco tempo perché sfiancate dalle richieste asfissianti della criminalità organizzata. Serve uno Stato che smetta di trattarlo come un figlio illegittimo e inizi a considerarlo un’eredità da proteggere.

Il lavoro non può essere una condanna. Serve un meccanismo di retribuzione indicizzato al costo della vita, non stipendi che diventano carta straccia sotto il peso dell’inflazione.
E poi c’è la grande ombra del costo dell’energia.
Se non fermiamo l’aumento delle bollette, delle materie prime, dei trasporti, ogni altra riforma sarà vana. L’energia non può essere un lusso per pochi. Deve tornare a essere un diritto per tutti.
Questa non è politica, non è ideologia. È sopravvivenza.
Un Paese che costringe il suo popolo a scegliere tra povertà ed esilio non è più una Patria, è una terra straniera.
E noi non possiamo accettare di essere stranieri nella nostra stessa casa.
Abbiamo barattato il nostro futuro con la precarietà.
Abbiamo accettato la miseria come una condizione naturale.
Abbiamo permesso a uno Stato cinico di trattarci come scarti di una produzione fallita.
Ma c’è ancora tempo. Non molto. Ma c’è.
E se l’ultima fiamma non fosse che un inganno? Se la scelta non fosse tra spegnerla o riaccendere il fuoco, ma tra saper bruciare fino in fondo o lasciarsi consumare nell’ombra?
Sta a noi decidere se accendere l’ultima candela o lasciare che questa terra si smarrisca nella propria oscurità, fino a non avere più un nome da ricordare né una voce per reclamare il giorno.
Perché un popolo che si abitua al buio non attende più l’alba, si accontenta della cenere. E nella cenere non cresce nulla, solo il silenzio di ciò che è stato e non sarà mai più.