Quella denunciata dal ministro Crosetto non è soltanto una frode ben architettata ma mostra un sistema in cui la richiesta informale di denaro da parte di un’istituzione non suona come un’anomalia ma come una consuetudine
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E questi sarebbero gli imprenditori italiani? Questi uomini e donne che siedono ai vertici delle più potenti aziende del Paese, simboli di successo e astuzia, si lasciano raggirare da una voce al telefono, come ingenui provinciali appena scesi dal treno alla Stazione Centrale? C'è da chiedersi, allora, che razza di intelligenza imprenditoriale governi le nostre élite economiche. Non ci si faccia illusioni, non è solo questione di una truffa ben architettata. È una questione di abitudini, di mentalità. Di un sistema dove la richiesta informale di denaro da parte di un ministero non suona come un'anomalia, ma come una consuetudine.
E allora mi domando: dove finisce la truffa e dove comincia la normalità? Quanti di questi imprenditori, abituati a maneggiare il potere con la stessa disinvoltura con cui sfogliano il bilancio, hanno pensato, anche solo per un istante, che quella richiesta fosse reale proprio perché verosimile? Perché, in fondo, l'idea che un Ministro possa chiamare per sollecitare fondi non è poi così assurda in un Paese dove la corruzione è spesso celata dietro il paravento della "collaborazione istituzionale".
Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, si affretta a denunciare la frode. Ma la sua stessa sorpresa nel vedere il proprio nome usato come grimaldello per spillare soldi rivela una verità più profonda e inquietante. In questo Paese, il confine tra legalità e illegalità è così sottile che basta una voce al telefono per confondere i due mondi. E gli imprenditori, quegli stessi che dovrebbero incarnare il rigore e la razionalità del capitalismo, si mostrano vulnerabili non per ingenuità, ma per una sorta di complicità latente. Perché, diciamocelo, chi ha versato quei soldi non l'ha fatto solo per buona fede o paura, ma perché si è sentito parte di un meccanismo più grande, dove favori e richieste informali sono la moneta corrente.
“Gli uomini dimenticano più facilmente la morte del padre che la perdita del patrimonio,” scriveva Machiavelli ne "Il Principe", e come dargli torto? In questo gioco di specchi tra potere politico ed economico, l’unica cosa che spaventa davvero non è il disonore o l’inganno, ma la possibilità di perdere anche solo una briciola del proprio impero. Questi imprenditori non sono vittime ingenue, ma partecipanti abituali di un sistema dove il denaro è l’unico valore condiviso.
Massimo Moratti, con quella leggerezza che solo i potenti possono permettersi, liquida l'accaduto con un: "Può capitare." Certo, può capitare. Ma a chi? Non al cittadino comune che, se ricevesse una chiamata del genere, penserebbe immediatamente a una truffa. No, questo capita a chi è abituato a muoversi in un mondo dove le telefonate dei ministeri non sono un evento straordinario, ma parte del quotidiano. A chi vive in quella zona grigia dove la legalità è una formalità e le relazioni con il potere sono un investimento.
E allora, più che indignarsi per la truffa, dovremmo interrogarci su questo sistema di relazioni opache che la rende possibile. Un sistema in cui la fiducia non è riposta nelle Istituzioni, ma nei legami personali, nei favori reciproci, nella consapevolezza che, in fondo, tutto ha un prezzo. Anche l'onestà.
La Procura di Milano indaga, insegue i flussi di denaro che scompaiono nei paradisi fiscali. Ma il vero paradiso fiscale è quello morale, quello in cui questi imprenditori si muovono con disinvoltura, certi che il loro potere li proteggerà da ogni conseguenza. Anche dall'umiliazione di essere stati truffati.
Nel frattempo, il popolo – quello vero, non quello che siede nei consigli di amministrazione – osserva e ride amaro. Perché chi vive di salario, chi combatte ogni giorno con la precarietà e la burocrazia, sa riconoscere una truffa quando la vede, anche e soprattutto perché la vive ogni giorno, seppur in maniera legalizzata.
Il paradosso è che proprio chi ha meno da perdere si dimostra più vigile, più critico. Forse perché, non potendo contare su protezioni e privilegi, ha affinato un istinto di sopravvivenza che manca a chi vive rinchiuso nelle stanze ovattate del potere economico.
“Il male che esiste nel mondo proviene quasi sempre dall’ignoranza, e le buone intenzioni possono fare altrettanto danno della malvagità quando mancano di comprensione,” scriveva Albert Camus ne "La Peste". Allora, viene da chiedersi: è stata davvero solo l’ingenuità a rendere possibile questa truffa? O forse è l’arroganza di credere che il potere sia sempre una garanzia, che il denaro possa comprare persino l’immunità dall’inganno?
Questo episodio, allora, non è solo una frode ben orchestrata. È lo specchio di un'Italia in cui il confine tra legalità e illegalità è così labile da rendere la truffa un'estensione naturale del sistema. E gli imprenditori italiani, lungi dall'essere vittime innocenti, sono parte integrante di questo meccanismo. Complici, consapevoli o meno, di un gioco in cui la vera truffa è credere che l'onestà possa esistere senza un prezzo.