Mi è sempre piaciuto il neologismo dantescointuarsi”: esso è formato dal pronome personale “tue viene usato, insieme a “inmiarsi”, per esprimere poeticamente la compenetrazione degli spiriti beati, l’identificazione spirituale e trascendente con l’altro. Dante, che nel Paradiso si trova al cospetto di beati che hanno accesso alla sua mente e ai suoi desideri, rivolgendosi nel IX canto all’anima di Folchetto da Marsiglia, dice: “S’io m’intuassi, come tu t’inmii” ossia: “Se io potessi entrare in te, come tu entri in me”.

La parola è stata poi ripresa da Vittorio Alfieri e, più recentemente, da Cesare Ruffato e Davide Rondoni, anche se in senso parodistico. Nell’italiano attuale, “intuarsi” non ha quasi alcun corso ed è registrato nei vocabolari dell’uso solo in virtù della sua presenza nella Commedia. Ma qualche anno fa è stato indicato dal neuroscienziato Vittorio Gallese come lemma particolarmente adatto per esprimere il senso di empatia attivato dai neuroni specchio: «In questi splendidi versi che testimoniano la mirabile creatività linguistica della grande poesia, possiamo trovare una illuminante definizione di empatia».

Empatizzare significa comprendere l’altro dall’interno, come anche suggerito dal termine tedesco per empatia, “Einfühlung”, sentire dentro. Questo 'intuarsi' implica la possibilità di connettersi al Tu senza perdersi in esso, attribuendo all’altro azioni, emozioni e sensazioni che, tuttavia, l’Io conosce in quanto parte della propria esperienza vitale”. Empatizzare, allora, significherebbe comprendere cosa fa o cosa sente l’altro senza necessariamente provarne compassione o essere indotti a soccorrerlo.

Nelle parole di Gallese si intravede la possibilità di trasferire nel presente l'impulso del termine dantesco e di cogliere in esso un senso di immedesimazione ideale e sentimentale con il proprio interlocutore che sarebbe più che necessario in una civiltà come la nostra che ha nella disgregazione dei legami sociali la forma di disagio più diffusa. Insomma, oggi più che mai, si sente il bisogno di “intuarsi” per fare davvero esperienza dell'altro, contrastando così ogni riduzione della complessità del carattere di ciascuno e ovviando a quel senso di continua derealizzazione che ha reso i concetti di anima e di mondo sociale così distanti tra loro, quando sono evidenti, invece, le analogie che li accomunano sul piano della struttura.