Bruxelles è di fronte ad un bivio epocale: o esce dal tunnel di risposte già date in passato, come l’austerità e la riproposizione all’infinito del modello neo liberale, oppure abbandona posizioni estreme e belliciste e sfrutta i nuovi assetti geo-politici a proprio vantaggio
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La narrazione di un occidente coeso, mai come adesso, è entrata in una crisi profonda, crisi di cui i dazi di Trump rappresentano solo la punta di un iceberg che per due decenni è stato nascosto. Non si sa per imperizia, per ingenuità o per semplice strafottenza, l’amministrazione di Trump sta mostrando al mondo, senza nessun velo, senza nessuna ipocrisia, quello che gli Stati Uniti di America hanno sempre fatto: i propri interessi, sia economici che militari.
Nel perpetrare i propri interessi gli Usa, così come ogni altra grande potenza, non hanno mai avuto interlocutori privilegiati e spesso le loro azioni hanno avuto effetti negativi proprio sugli alleati storici, come l’Unione Europea.
Partiamo dal dato militare e dalle numerose “missioni di pace” che si sono svolte, con una certa regolarità, con conseguenze umanitarie, economiche e sociali disastrose. Erroneamente si tende a considerare la crisi Ucraina come la prima guerra combattuta sul suolo europeo dopo la fine della Guerra Fredda, ma non è così, perché spesso ci si dimentica della terribile guerra che ha martoriato, smembrandola, la Jugoslavia.
La guerra in Jugoslavia è stato uno degli eventi più significativi del dopoguerra europeo, non solo per la sua violenza e complessità etnica, ma anche per il modo in cui ha segnato l’inizio di un nuovo ordine geopolitico. L’intervento della Nato in Kosovo nel 1999, senza un chiaro mandato delle Nazioni Unite, ha rappresentato una frattura importante nel diritto internazionale e ha sancito una crescente dipendenza dell’Europa dalla leadership militare statunitense. Da quel momento in poi, complice anche la debolezza delle altre super potenze, l’allargamento della Nato verso Est è diventato un processo sistematico, esteso ai Paesi dell’ex blocco sovietico; nonostante le prime reazioni timide, l’allargamento costante fino ai confini russi, è stato sempre percepito dalla Russia come un accerchiamento strategico. Questa mossa, che avrebbe dovuto garantire stabilità e sicurezza, ha in realtà prodotto l’effetto opposto: ha inasprito le tensioni geopolitiche, portando ad una crescente militarizzazione dei confini orientali dell’Europa e al deterioramento progressivo dei rapporti con Mosca.
La guerra in Ucraina è solo l’ultimo, drammatico esito di questa lunga traiettoria iniziata negli anni ’90, di cui adesso l’Unione Europea deve fronteggiare le fratture più profonde, in un momento in cui l’amministrazione Trump ha indebolito la capacità dell’Unione di incidere nei grandi scenari internazionali, rendendola un attore spesso diviso, reattivo, subordinato agli interessi atlantici. Un altro caso emblematico della disastrosa politica militare made in Usa è l’Afghanistan. Invaso sull’onda emotiva dell’11 settembre, dopo vent’anni di guerra, il Paese non ha mai conosciuto la democrazia che si intendeva esportare.
Le truppe occidentali si sono poi ritirate in modo repentino, lasciando il paese nel caos e consegnandolo nuovamente ai Talebani. Oltre al disastro umanitario, questo ritiro immediato ha prodotto nuovi flussi migratori, aggravando una crisi già profonda nei Paesi europei di frontiera. L’Europa, pur non essendo l’artefice principale del conflitto, si è ritrovata a subirne gli effetti, dimostrando ancora una volta la sua incapacità di prevedere e gestire le conseguenze geopolitiche delle guerre d’altri.
Su di un piano ideologico, il caso afghano, come la Siria, come l’invasione dell’Iraq, ha sancito il fallimento dell’esportazione della democrazia, anche perché non si può esportare un modello, senza esportarne prima i valori che lo hanno prodotto. Con l’economia non è certo andata meglio. La crisi dei subprime del 2008 ha rappresentato il simbolo più evidente della fragilità del modello neoliberale statunitense, fondato sulla finanziarizzazione estrema e sulla scommessa del debito. Un sistema che, al minimo squilibrio, ha trascinato nel baratro intere economie nazionali.
Le ripercussioni sulla zona euro sono state devastanti: molti Paesi, tra cui l’Italia, si sono ritrovati incastrati in meccanismi di austerità, imposti da logiche economiche esterne, che li hanno messi in una posizione di costante vulnerabilità rispetto alle speculazioni dei mercati finanziari internazionali. La crisi ha dimostrato che la globalizzazione, lungi dal creare benessere diffuso, ha accentuato le disuguaglianze, reso i governi più deboli, e lasciato che la politica abdicasse di fronte alla tecnocrazia finanziaria. Adesso si tenta di correggere il tiro, ma non sono certo i dazi la risposta a questa crisi strutturale della globalizzazione. L’Europa dovrebbe adesso svegliarsi e cercare di capire il futuro prima ancora di subirne gli effetti, perché alcuni effetti sono distruttivi, come ad esempio sta succedendo con il gas americano.
Sull’onda emotiva di sanzioni frettolose, l’Italia ha dovuto riformulare di colpo la propria politica energetica a seguito del conflitto in Ucraina e della conseguente rottura con la Russia. Una delle soluzioni più diffuse è stata l’importazione di gas naturale liquefatto (GNL) dagli Stati Uniti, da rigassificare nei terminali italiani a costi elevatissimi, sia economici che ambientali. Dunque la crisi ucraina, invece di favorire una transizione energetica autonoma, ha anche portato molti stati come l’Italia a sostituire una dipendenza con un’altra, rinforzando il vincolo strategico e la sudditanza economica con Washington.
Adesso l’Unione Europa è di fronte ad un bivio epocale: o esce dal tunnel di risposte già date in passato, come l’austerità e la riproposizione all’infinito del modello neo liberale, basato sulla idea che il mercato debba venire prima dei cittadini, oppure cambia strategia, abbandona posizioni estreme e belliciste, e sfrutta i nuovi assetti geo-politici a proprio vantaggio, come del resto sta facendo Trump.