Al netto della sempre più alta e preoccupante astensione (verso cui la politica deve mostrare vera attenzione), Giorgia Meloni ha vinto queste elezioni. Ha vinto la sua perseveranza intrisa di coerenza comportamentale, programmatica e non solo ideologico-identitaria. Ha vinto svuotando progressivamente ed in pochi anni, in un trend crescente (crescendo di 20 punti percentuali in tre anni), il serbatoio di voti degli alleati della lega.

Voglio ricordare che solo nelle elezioni politiche del 2013 fratelli d’Italia (il partito di Giorgia Meloni) racimolò solo l’1,96% dei consensi ed entrò in Parlamento per effetto di un perverso cavillo tecnico (che prevedeva una sorta di ripescaggio del miglior perdente) dell’allora legge elettorale chiamata “Porcellum” dallo stesso inventore, il Senatore della lega Calderori. Ed è solo grazie a quel cavillo che la Meloni ha potuto scalare la leadership di centro destra fino ad arrivare ad essere primo partito nel Paese con il 26% dei consensi.

Fuori dalle istituzioni sarebbe stata una chimera la conquista del potere. Ha vinto non solo (come dicono la maggior parte degli analisti) per la sua intransigente opposizione al governo Draghi ma, per la sua linea di coerenza politica che l’ha portata all’opposizione di tutti e tre i governi multicolore nati in questa rocambolesca ultima legislatura. E aggiungo, in un contesto storico in cui assistiamo al progressivo sgretolamento dei partiti politici (ormai ex giganti dai piedi d’argilla, per usare una espressione cara ai politologi) sono i leader ad attrarre ed incanalare consensi.

Infatti, si può ben osservare come in uno schieramento politico (quello di centro destra) dove la base-bacino dei voti è rimasta sostanzialmente la stessa, la sola differenza che è emersa, è quella che ha portato quegli elettori ad optare per un leader diverso. Insomma, l’elettore affida la sua fiducia a leader diversi, individuando di volta in volta la figura più carismatica all’interno dello stesso orientamento d’appartenenza: si iniziò con Berlusconi, si provò con Salvini fino a scegliere Giorgia Meloni. Ecco spiegato un altro dei motivi che ha portato Giorgia Meloni a vincere queste elezioni.

Ora che si è infranto il tabù sulla rottura del soffitto di cristallo con la prima donna a Palazzo Chigi (ciò avverrà sempre dopo l’incarico che le affiderà il Presidente della Repubblica Mattarella), speriamo soltanto non crolli l’intera casa, soprattutto quella europea. Merita comunque un voto alto. Chapeau.

Ha vinto Giuseppe Conte con il nuovo Movimento 5 stelle (epurato dai “poltronisti dimaiani”) ritagliato su misura. Ha vinto con una tempra caratteriale inusuale e per nulla banale: tenacia, grinta, eleganza, empatia, prossimità, pacatezza, decisionismo, dopo aver superato difficoltà di ogni tipo, ivi compresi due gravissimi “agguati politici”: il “conticidio” per mano di Renzi che comportò la caduta del governo Conte 2; l’inaspettato tradimento in piena crisi sanitaria, geopolitca e socio-economica, consumatosi per colpa di quel Di Maio che solo qualche anno prima, lo aveva presentato agli italiani indicandolo come Presidente del Consiglio del governo del cambiamento.

E ha vinto contro tutto e tutti e con un sistema massmediatico mai morbido con i sempre più fastidiosi 5 stelle. Ha imposto la sua linea con coraggio e determinazione, calando il poker del listino personale con nomi di alto profilo della società civile, in totale discontinuità rispetto a tutti gli altri partiti politici che al di là di qualche bandierina, hanno sempre concentrato i loro sforzi sulla spartizione di potere e poltrone, bilanciandola tra le correnti ma, mirante esclusivamente alla conservazione di un ceto politico.

Ha costruito un Movimento rinnovandolo e non temendo e subendo i contraccolpi pur insidiosi delle assenze anche di livello (vedi Fico, Bonafede e vari altri big di peso), imposte dalla confermata regola aurea del limite del doppio mandato e, nonostante le fughe dei traditori dimaiani ai quali non sarebbe stata concessa alcuna deroga per ricandidarsi oltre i due mandati appunto. Si è spostato abilmente a sinistra, in soccorso degli ultimi, sempre più dimenticati dalla sinistra cosiddetta tradizionale e, ha provato a scuotere fino a svuotarlo (di significato) il sempre più suonato PD. Non per ultimo, ha imposto due ex magistrati antimafia in Calabria (De Raho e Scarpinato) e uno in Sicilia (Scarpinato), cosi da proporre il tema legalità non solo in un programma cartaceo ma con scelte concrete, il tutto in una campagna elettorale sostanzialmente perfetta dal punto di vista comunicativo, social, strategico, politico.

Un leader diverso insomma (e non solo perché non è percepito e non è un politico di professione), da studiare con attenzione. Impeccabile. Naturalmente chi pensa che avendo dimezzato i voti rispetto alle scorse elezioni politiche, il Movimento 5 stelle abbia perso e, non tiene conto del fatto che l’allora Movimento 5 stelle era una forza rivoluzionaria, antisistema e di opposizione, cosa ben diversa da un Movimento che ha governato (vale sempre il detto: chi governa scontenta) con quasi tutti i partiti politici, in una delle legislature più complesse della storia repubblicana, ed era dato per spacciato da tutti i sondaggi estivi, dopo esser stato ingiustamente incolpato della caduta del governo Draghi, o è in malafede o non ha capacità di analisi.

Non ha perso e non si è sciolto Berlusconi. Inimmaginabile se non fosse vero, che un anziano di 86 anni, con non pochi acciacchi fisici e non solo giudiziari che, suo malgrado ha dovuto gestire una campagna elettorale interamente digitale reinventandosi social media manager di sé stesso e non solo improvvisandosi tik toker, per la gioia di centinaia di migliaia di diciottenni, reggesse una fase politica così tormentata. 

È riuscito a mantenere la barra dritta e a non scendere sotto l’8 per cento che ne avrebbe sugellato la graduale e definitiva scomparsa, pur dopo aver assecondato i desiderata di Salvini nel voler sparigliare e far cadere il Governo Draghi e, nonostante le conseguenziali fuoriuscite di peso relative a quella scelta: Gelmini, Carfagna, Brunetta.

Certo, si era preparato a ritornare redento in Senato dopo la sua espulsione di qualche anno fa per effetto della legge Severino, addirittura comprandosi una squadra di calcio (dopo gli anni gloriosi col Milan), parlo del Monza e, prefissandosi di riportarla in pochi anni in serie A (così come poi avvenne), per la prima volta nella storia di quella città. E allora si era capito che, candidatosi in quel collegio uninominale, lo avrebbero votato anche i sassi. Così è stato. Highlander.

Inutile se non sotto l’aspetto dei giochi di palazzo che potrebbero profilarsi in questa non meno turbolenta legislatura che sta per nascere, la partita del terzo polo. Ha sottratto voti al solito frastornato Pd (così ci dicono i flussi elettorali, soprattutto al nord, ad es. a Milano centro, il terzo polo ha svuotato letteralmente il bacino elettorale che solo pochi mesi fa era del pd), non riuscendo a raggiungere la doppia cifra erodendo consensi a forza Italia per come si erano prefissati. Non ha creato nuova classe dirigente ma, ha salvato gli amici dei leader oltre ad aver accolto trasfughi da ogni dove.

Si è mostrato totalmente ininfluente al sud (come avevo ampiamente previsto) e, non ha fatto altro che avvantaggiare soltanto la destra. Insomma, un esperimento politico ad oggi fallimentare, più di quello che tentò il professor Mario Monti qualche lustro fa. Bocciato.

Ha perso l’ex influencer con la felpa Salvini, leader ormai suonato che ha esaurito la sua spinta propulsiva e non ne ha indovinata una negli ultimi anni, dal Papeete in poi per meglio intenderci. Certo, l’aver governato con tutti ha senz’altro svuotato di significato la sua “rivoluzione della propaganda” ma, pare che abbia perso anche la scommessa di una lega nazionale pur a trazione nordista.

Lo salva solo una qualificata classe dirigente (la stessa che di qui a breve potrebbe voler la testa proprio di Salvini) che ritrovandosi soltanto nei territori regionali del nord est, potrebbe spingerlo a ridimensionare la portata e ricondurlo nell’alveo del movimento a vocazione territoriale federalista per come era nato. Bocciato ma con riserva.

Ha straperso Enrico Letta e lo ha fatto in modo piuttosto dilettantistico. Non ne ha incappata una: dal punto di vista politico, strategico, comunicativo, programmatico, coalizionale, delle candidature. Arroccato assieme ai dirigenti del Pd ai piani alti di via del Nazareno, hanno recuperato soltanto l’ultima scialuppa di salvataggio di un ceto politico ormai logoro e non più adatto a cogliere le enormi sfide che la modernità ci impone. Lui però ha avuto la bontà e l’umiltà del passo di lato, gli altri no. Bocciato e bocciati senza possibilità di appello.

Come avete potuto notare, ho concentrato queste mie valutazioni analitiche più sui leader che sui partiti in sé, visto che sono ormai i leader carismatici o meno (e non più i partiti politici), ad attrarre un elettorato sempre più distaccato, frastornato, liquido che, di volta in volta si affida - illudendosi di tornata in tornata - a leader diversi, sperando di trovare quello giusto che possa colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa dei partiti politici d’un tempo e, dare speranze di cambiamento e risposte ai tanti e sempre più elevati bisogni sociali emergenti.

Sul voto calabrese, al netto degli esiti prevedibili: il primo posto del Movimento 5 stelle pur avendo lasciato a casa molti suoi elettori del 2018; la crescita esponenziale di fratelli d’Italia, in linea con il trend nazionale; il tonfo della lega che pur per effetto traino, porta in Parlamento un buon numero di suoi candidati rispetto ad altri partiti che hanno preso più voti; l’inconsistenza del terzo polo; le stazionarie ma sempre gravi condizioni del pd calabrese, sono tre gli aspetti analitici di rilievo su cui mi soffermo brevemente.

1. Il dato di astensionismo (senz’altro prevedibile e previsto ma non per questo meno allarmante) fisiologicamente cronico, diventa sempre più preoccupante perché svuota in modo vieppiù crescente la democrazia, oltre a creare una condizione di rassegnazione che non può condurci alla necessaria autodeterminazione. Senza tuttavia mai dimenticare “l’assioma” che ci dice: minore è la partecipazione, maggiore è il voto controllato e gestito anche “militarmente”, dalle dinamiche clientelari predominanti tra i partiti.

2. Il dato - prevedibile ma pur sempre eclatante - di forza Italia regionale che ha letteralmente doppiato il dato nazionale (pur in leggero calo rispetto alle politiche del 2018) in ragione del fatto che a guidare la giunta regionale c’è un esponente forzista (Roberto Occhiuto, impegnatosi in prima persona in questa campagna elettorale ed il cui mantra nella strategia comunicativa è stato: un Governo amico, con forza Italia forte, sarebbe stato più utile alla Calabria per meglio affrontare le enormi sfide che l’attendono) da meno di un anno e, non poteva non mantenere un consenso alto di gradimento viste le aspettative ancora alte che i calabresi hanno riposto su di lui.

3. La vittoria inaspettata per i più (il sottoscritto lo aveva pronosticato) del collegio uninominale camerale di Cosenza -Tirreno (l’unico strappato al centro destra nell’intera Regione) da parte della deputata uscente, già sottosegretario di Stato al Ministero per i beni e le attività culturali durante il Governo Conte 2, la pentastellata Anna Laura Orrico, il cui significato al netto dei numeri in senso stretto, potrebbe voler significare una svolta (sempre e comunque riferibile ad un contesto urbano dove il voto di opinione è sempre maggiore rispetto ai piccoli borghi) nelle dinamiche del consenso calabrese per lo più dettate da dinamiche clientelari e, addirittura essere antesignana di un percorso di superamento di meccanismi familistici, altresì ben radicati in Calabria come nel resto del sud Italia più in generale.