Ci sono parole che, più di altre, riescono a entrare nella carne viva di un posto, a sviscerarne l’essenza, a tirarne fuori l’anima. Abbiamo scelto di usarne solo tre. Tre parole che andremo a cercare in ogni luogo che visiteremo, in questo viaggio appena intrapreso. Parole che osserveremo, ascolteremo, annuseremo e sentiremo sulla pelle. Le annoteremo su un taccuino, per portarle indietro con noi con tutto il loro arcobaleno di suggestioni che proveremo poi a dipingere con i nostri strumenti. Voce e immagini per raccontare i posti in cui sceglieremo di fermarci, tasselli preziosi di quel complesso mosaico che è la Calabria

Così, tre parole ci guidano alla scoperta di Cleto, prima tappa del nostro cammino, un tesoro custodito al confine tra le province di Cosenza e Catanzaro.

Per arrivarci bisogna lasciare le strade principali e avventurarsi lungo le vie interne della sponda tirrenica, tra campi verdi punteggiati di ulivi e fiori gialli ai bordi dell’asfalto. Dopo qualche curva eccolo lì, uno spettacolo riservato agli occhi di chi lo cerca. Sembra l’opera d’arte di uno scultore, un paese plasmato nella roccia del monte Sant’Angelo, alle cui pendici è nato, molti secoli fa. 

Ci sono le Poste, il bar, i balconi con le tracce di una quotidianità taciturna ma operosa. Il vecchio borgo è tutto in salita, ti entra nei muscoli fiaccati dallo sforzo e ti spezza il respiro in gola. La prima parola è tra questi vicoli induriti dal tempo, in una nicchia ricavata nella pietra. È mito. Una targa ricorda la leggenda che porta ai tempi della guerra di Troia e a un popolo di donne coraggiose, le Amazzoni, guidate dalla loro regina Pentesilea. «Guerriera ardita» la chiama nell’Eneide Publio Virgilio Marone che «di qual sia cavalier non teme intoppo». Ma in battaglia cadde per mano di Achille e per darle degna sepoltura la sua nutrice intraprese un viaggio in mare che la tempesta dirottò sulle sponde di quella che oggi è la Calabria. Il cammino di quella donna terminò qui, nel posto che prese il suo nome: Cleta

Dove finisce la leggenda, comincia la storia. E la storia racconta che Cleta fu colonia di Crotone, poi contro la città madre fu spinta in guerra dal suo desiderio di indipendenza, uscendone distrutta.

Durante la dominazione normanna diventò Petramala, un nome con ogni probabilità legato alla pietra dura nella quale il paese è incastonato. Riprese poi l’antica denominazione, ma con una leggera variante. Oggi è Cleto. Ma le tracce della sua “petra mala” sono ovunque. È fatta di pietra anche la seconda parola di questo luogo: castello. Declinata al plurale: castelli. Questo è infatti uno dei pochi centri in Italia ad averne due: il castello medievale e il castello di Savuto, nell’omonima frazione.

Il castello medievale è il punto più alto di Cleto. Da quassù si domina la valle e in lontananza il mar Tirreno è uno spicchio azzurro tra due verdi colline. 

Il suo alito arriva lento, tra le vecchie case in pietra abbandonate e le tre chiese: quella matrice di Santa Maria Assunta, quella della Consolazione e i ruderi della chiesa del Santissimo Rosario. Tutto procede lento. Solo qualche gatto si ferma a guardare, sospettoso, per poi scattare e scomparire tra i vicoli. È questa la terza parola: lentezza. Respira piano Cleto, ma vive. Nella leggenda e nella storia, con il suo tempo trascorso che smussa gli angoli della roccia ma non li cancella. Sul portale web del Comune si avverte: «Da visitare con lentezza perché la bellezza si nasconde in ogni piccolo particolare»

Così abbiamo fatto: ci siamo messi all’ascolto, abbiamo osservato, sentito sotto ai passi la dura pietra e il suo racconto.

“Le parole dei luoghi” è la rubrica a cura di Francesco Tricoli e Mariassunta Veneziano che ogni domenica racconterà un angolo di Calabria nel corso dell’edizione del tg di LaC News24, sui nostri canali.