Floriana Calcagno e Laura Bonafede, due docenti cresciute in famiglie mafiose, si sono contese l’attenzione del boss più ricercato d’Italia. Lui annotava tutto, anche i giorni in cui “dipingeva”. Per Messina Denaro le donne erano specchi in cui contemplarsi
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«Le donne intelligenti non me le filo neanche di striscio». Così scriveva Matteo Messina Denaro, boss stragista e narciso patologico, nei suoi diari. La frase, da sola, basta a restituire il delirio di superiorità con cui il padrino di Castelvetrano guardava al mondo femminile. Alle donne chiedeva devozione assoluta, non certo autonomia o spirito critico. E non tollerava contraddizioni: voleva essere adorato, non discusso.
Eppure, le sue ultime due amanti erano insegnanti, colte e laureate. Ma cresciute in famiglie dove la cultura mafiosa è tradizione, e la lealtà verso il padrino conta più della legalità. Non è un dettaglio trascurabile: è la chiave per capire come due donne teoricamente emancipate abbiano potuto diventare complici di un latitante pericoloso, contendendosi perfino le sue attenzioni in un balletto velenoso di pizzini e frecciate.
Floriana Calcagno, professoressa di matematica, ha provato a salvarsi in extremis. Dopo l’arresto del boss si è presentata in procura raccontando di essere caduta dalle nuvole: «Credevo si chiamasse Francesco Salsi, anestesista in pensione». Una bugia smascherata in fretta dai carabinieri del Ros, che nella sua casa hanno trovato pizzini, tre Rolex e perfino il calendario dove Messina Denaro segnava in rosso i loro incontri amorosi.
Floriana è la diciottesima donna finita in cella per aver favorito la latitanza di “u Siccu”. Ma il dato che sconcerta è un altro: come Laura Bonafede, anche lei era una docente. In apparenza emancipata, in realtà profondamente radicata nel sistema mafioso. Nata in una famiglia d’onore, come l’amica-rivale. Perché sì, le due donne si conoscevano. E si scrivevano pizzini avvelenati: Bonafede soprannominava Calcagno
“handicap” e “sbreghis”, segno di una gelosia feroce. Non solo dell’uomo, ma del ruolo strategico che l’altra stava conquistando.
Il boss ne godeva. Annotava ogni parola, ogni frase che lo esaltasse. «Hai la bocca perfetta, disegnata da Dio», gli avrebbe detto una delle due. Lui trascriveva tutto, convinto di far “tremare” le donne solo con il suo sguardo. Aveva persino un termine criptico per segnare i rapporti sessuali: “dipinto”. Un’ossessione documentata su post-it, pizzini, agende. Ogni incontro era un trofeo, un punto in più nel culto narcisistico che alimentava da decenni.
Dietro l’immagine del boss raffinato si nascondeva un uomo ossessionato da sé stesso. Che disprezzava l’intelligenza femminile, ma si circondava di donne colte, solo per sottometterle. Il loro ruolo? Non
amanti, ma strumenti. Staffette, complici, custodi del mito del padrino. Gli portavano soldi, lo ospitavano, controllavano che carabinieri e polizia non fossero nei paraggi. E mentre loro lo coprivano, lui infrangeva
le regole della mafia stessa: come quella che vieta di “guardare le mogli degli amici nostri”.
Laura era sposata con un ergastolano. Floriana con un uomo legato al sottobosco criminale. Ma per Messina Denaro non era un problema: bastava che lo adorassero. Quello che emerge dai suoi scritti non è amore. È possesso. Un desiderio feroce di controllo, di ammirazione cieca. Non chiedeva affetto: pretendeva venerazione. Il boss si era costruito un’immagine seduttiva, potente, quasi messianica. Si considerava irresistibile, e ogni donna conquistata era solo un nuovo specchio in cui contemplarsi.
E loro? Non erano ignare. Erano donne istruite, ma immerse in un contesto in cui il crimine non era eccezione, ma norma. Dove il potere criminale è fascino e il silenzio, virtù. Non insegnavano i “valori mafiosi”, certo. Ma con il loro esempio ambiguo minavano la credibilità della scuola come presidio di legalità. Due donne che, invece di educare, recitavano a memoria il codice della mafia. Per amore? Forse. Ma soprattutto per devozione. Quella che il boss esigeva. E otteneva. Come un dio crudele.