«Esclusa qualsiasi ipotesi di collusione con i mafiosi, se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare la libertà di Provenzano, ciò ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato».

Lo scrive la Corte d'Assise d'Appello nelle motivazioni alla sentenza di secondo grado sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia sostenendo che i carabinieri avrebbero voluto «favorire la latitanza di Provenzano in modo soft».

Quindi, secondo i giudici di Corte d’assise d’appello di Palermo, la trattativa tra Stato e mafia c'è stata, una iniziativa definita nelle motivazioni «improvvida», quella del Ros dei carabinieri di cercare l’intermediazione dell'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, ma che aveva come unico scopo quello di fermare le stragi mafiose. Ecco perché il 23 settembre del 2021 vennero assolti i generali Mario Mori e Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno dall'accusa, grave, di minaccia a corpo politico dello Stato, cioè al governo. Adesso è scritto nero su bianco, nelle 2.971 pagine delle motivazioni dei giudici della Corte d'assise d'appello di Palermo depositate ieri in cancelleria.

Il Presidente della Corte Angelo Pellino e il giudice a latere Vittorio Anania spiegano nelle motivazioni il perché un anno fa hanno ribaltato la sentenza di primo grado assolvendo gli alti ufficiali dei carabinieri, ma anche l'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri che in primo grado erano stati condannati a pene pesanti. Mentre furono dichiarate prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca. Pena ridotta al boss Leoluca Bagarella. Confermata la condanna del capomafia Nino Cinà.

«V'erano dunque indicibili ragioni di “interesse nazionale” a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l'egemonia di Provenzano e della sua strategia dell'invisibilità o della sommersione - spiegano -, almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l'organizzazione. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso».

«Scartata in partenza l'ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa e confutata l'ipotesi che essi abbiano agito per preservare l'incolumità di questo o quell'esponente politico, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell'incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale - e fondamentale - dello Stato», scrivono i giudici.

La procuratrice generale, dopo avere letto le motivazioni, ha dichiarato: «Leggeremo la sentenza e valuteremo gli spazi per il ricorso in Cassazione».