L’identità di un popolo plasma i luoghi e l’ambiente. Quando il senso di comunità viene annichilito dalla storia e dal racconto che ne fanno i vincitori, si perde la propria essenza culturale e il brutto dilaga, come il caos urbanistico e il “non-finito” che punteggia ogni angolo di questa regione (ASCOLTA L'AUDIO)
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Percorri la Calabria e trovi il paesaggio calabrese (bello!), non il paesaggio dei calabresi (almeno odierni), come se la Calabria ci fosse ma i calabresi non ne facessero parte, se ne vedessero estranei; o, per essere più precisi: non avvertissero come propria l'intera regione e l'intera comunità, ma solo la mappa della loro residenza, delle loro frequentazioni. Lo dico esagerando, per rendere più chiara la cosa: come se avvertissero comunanza solo con la geografia fisica e umana dei propri interessi e affetti e il resto della Calabria e dei calabresi fossero altro e altri, magari pure “contro”.
I paesaggi calabresi
Cosa intendo dire? Chi va in Toscana, vede e ammira il paesaggio toscano, il verde un po' meno trasparente di quello della campagna laziale, ma anche più regolare, ordinato, scandito dai casali vasariani, i muri che pur se nuovi sanno di antico, la punteggiatura prevedibile dei borghi sui colli. Insomma, hai la Toscana e la mano dei toscani. Vedi l'una e l'altra. E così in altri luoghi in cui terra e gente sono in reciproca appartenenza, condivisione.
Non altrettanto in Calabria (e questo vale anche per quasi tutto il Sud, dove più, dove meno). La cosa è evidente nelle periferie (la peggiore possibile, forse, ma gli ex-aequo sarebbero tanti, è la catena di brutture che inanellano la costa reggina sullo Stretto, nonostante “il più bel lungomare d'Italia). Cosa vedi? Ognuno la sua casa, senza alcuna attenzione né idea di armonia con quel che c'è intorno. E non si commetta l'errore di ritenere che questo sia dovuto alla povertà edilizia (abitazioni spesso al limite del baraccamento, come realizzate con materiali di risulta, avanzi, muri non intonacati ma infissi di qualche pregio, per dire): guardate i centri storici, la loro bellezza. Non hanno avuto un architetto che li abbia disegnati, ma tutto, dalla stamberga del povero al castello del nobile, passando per la bottega del fabbro o la cattedrale, è in equilibrio di forme, colori, direzione, pur se ognuno costruì secondo i propri bisogni, ambizioni, possibilità.
Disordine urbano
L'esempio massimo di centro urbano povero sono i Sassi di Matera, ma sono anche l'esempio massimo di bellezza architettonica, tanto da far eleggere la città capitale europea della Cultura. L'osservazione vale per tutti i centri storici: le dimensioni dicono del potere e della disponibilità di mezzi del padrone di casa, ma le linee, i volumi e l'orientamento stesso dei muri sono coerenti, conformi con l'idea del “tutt'uno” di cui ogni costruzione è parte, in un insieme armonico, traduzione e rappresentanza di un'idea di comunità.
Chi insegnò a quei cocchieri, arcipreti e baroni a erigere in armonia i loro muri? Nessuno: tutti “lo sapevano”, senza averlo dovuto studiare. Lo sapevano, perché in quell'ordine, in quell'equilibrio di proporzioni erano nati, vivevano: l'ambiente è formato da chi lo fa e forma chi ci sta.
Né si commetta l'errore di ritenere che il disordine urbano e la povertà siano solo conseguenza della cappa mafiosa che opprime la comunità. Ci sono ampie dimostrazioni del fatto che la mafia non è necessariamente sempre causa di povertà del territorio (si vedano certi quartieri di New York, Las Vegas, Tokyo, “ufficialmente” in mano a potenti “famiglie”). Il crimine organizzato ricopia, in negativo, la società di cui è parassita; l'oppressione mafiosa, al Sud, in Calabria specialmente, è conseguenza nel sociale dello stesso fenomeno che produce le bruttezze edilizie: la mancanza di un riferimento comune in cui riconoscersi tutti (infatti, la mafia si ritaglia un mondo a parte, con rituali, gerghi, codici propri).
«Basterebbe insegnare la bellezza»
Guardate il panorama urbano della Calabria, specie costiero e non storico: ogni edificio un colore (ma più spesso niente o più di uno: se più piani e proprietari diversi, lo capite dal fatto che ognuno adorna, scusate il termine, il proprio, come se non ci fosse nessuno sopra e sotto), alcuni allineati, altri di traverso, uno tirato su con mattoni forati a vista, da intonacare, l'altro che potrebbe stare a Beverly Hills, una villetta similtirolese accanto allo scheletro di un edificio incompiuto, a testimonianza di calcoli sbagliati o ripensamenti... A volte una teoria di villette a schiera, o quartierini chic, rifiniture lusso, fra il rudere di una vecchia fornace (o azienda agricola?) e un capannone dismesso, nei pressi di un monticello di calcinacci, pezzi di mattoni, ferraglia di un cantiere (magari proprio quello del quartierino chic?) ormai chiuso...
Se vivo in tale contraddittorio panorama, la mia idea del bello e del sociale diventa quella: lo trovo “naturale”, così come si abitua al fischio del treno chi abita sulla ferrovia o al puzzo di letame chi sta a ridosso delle stalle. Quel disordine e quell'assenza dallo spazio comune e persino disprezzo diventano la lente con cui si guarda e il metro con cui si misura quello che è pubblico. «Basterebbe insegnare la bellezza», diceva Peppino Impastato, «per sconfiggere la mafia», l'equivalente di quello scempio nel tessuto non edilizio, ma sociale.
Le fratture storiche e la rinascita
Ma, come sappiamo tutti bene, se entriamo in una qualsiasi delle case che si presentano così male e paiono ignorarsi l'un l'altra, scopriamo delle regge, per gusto, pulizia, rispetto. Questo vuol dire che “spazio proprio” è considerato solo quello familiare, o allargato a una cerchia di amici o di interessi comuni. Quello pubblico, “di tutti”, non è di nessuno. Accade quando non si sente più la comunità quale garanzia, sicurezza, identità condivisa; e questo è conseguenza di traumi, fratture storiche, sociali, che lacerano la trama di legami, interessi, tradizioni, costumi, gerarchie... Il Sud ne ha avuto uno devastante un secolo e mezzo fa, con l'unificazione a mano armata del Paese. Il che non dovrebbe bastare a spiegare quanto succede oggi: la nascita degli Stati nazionali per far partire la rivoluzione industriale avvenne quasi ovunque con un bagno di sangue e feroci repressioni, come da noi, per annettere il Regno delle Due Sicilie e farne un mercato-colonia interno. Quell'evento storicamente necessario per la nuova era, mise una parte dell'attuale Paese e del Sud, contro il resto del Sud, generando sfiducia e risentimenti sociali che si trascinano ancor oggi, pur se non più riconoscibili o riconducibili alle ragioni d'origine.
Nel resto del mondo, dal Giappone (guerra degli Shogun) agli Stati Uniti (di secessione), dopo i cannoni sono arrivati i treni, dopo gli eserciti le strade. Al Sud nulla o quasi, persino un razzismo di Stato con ministri che insultano impunemente i meridionali e un partito, la Lega (forse il più sincero) che prende voti anche a Sud e in Calabria, nonostante il segretario nazionale condannato per razzismo (contro i napoletani), come il suo vice e qualche parlamentare di rilievo.
Dite che la sto facendo troppo complicata e sto traendo troppi significati da un po' di casino edilizio? Può darsi, ma fate il raffronto fra i vecchi paesi, le città e la loro parte “moderna”: i centri abitati sorgevano intorno a un castello, un santuario, una fontana, un porto naturale. Ovvero: un posto e una ragione per stare insieme. L'idea che “finito il paese” comincia la campagna o la zona delle fabbriche, non regge più: quando ti sembra che “stai per uscire”, fra diradarsi di case, coltivi e qualche capannone, ricomincia quella semina sparsa di edifici che non sai se sono ancora “città”, “paese” o cosa. Insomma, l'idea di città è qualcosa che unisce, concentra in un posto per un progetto comune. Se non unisce, ma sparpaglia e a caso, ognuno per sé e come gli pare, la città non è più riconoscibile, non c'è. E la comunità neppure.
Qual è il centro? Una volta la piazza: ci si trovava lì, si convergeva. Oggi, se centro c'è, è commerciale. Lo dico meglio: ho fatto un giro per Limbadi, con il sindaco. Siamo stati nella piazza dov'è il palazzotto nobiliare degli antichi signori del paese, che poi fu sede del Comune e oggi è frazionato fra più proprietari. Quel palazzo è un trattato di storia e di sociologia: parte in rovina di fatto, per abbandono; parte si vede abitata, persino con orgoglio, pare, se si è provveduto persino a riprodurre, sul tetto la merlatura ghibellina: ma solo nella parte di proprietà (quindi niente prima e dopo) e con materiali non coerenti con l'edificio (cemento?); parte, sul lato strada, intonacato con un giallo canarino fosforescente, ma addirittura a scacchiera!
Cosa dice questo, se non che il monumento dell'identità è stato distrutto insieme a quella? Ci fosse un dubbio: lo stemma sulla facciata (ora vuota), che ne era il sigillo, lo hanno scalpellato.
Limbadi
Ho chiesto al sindaco, Pantaleone Mercuri: «Se vado a Roma, vedo il Colosseo e so dove sono; a Limbadi, delle case qui, un altro gruppo lì, una campagna, una frazione, fabbriche nel paese, una isolata, poi la zona industriale, altro grumo di palazzotti... Come faccio a sapere che sono a Limbadi, se pure quello che ne era il simbolo, l'ex Palazzo del Signore, poi Palazzo del Comune, è snaturato?».
Il sindaco mi ha portato a Motta Filocastro, frazione distante qualche chilometro, un delizioso centro storico, rimasto intatto: «Qui». La sera ne ho parlato con una persona di ottimi studi, un lavoro e un ruolo importanti nella comunità. «E com'è?». «Non so... Potrebbe essere un quartiere di Gubbio». «Gubbio? Certo. E dov'è Motta Filocastro?». «Qui vicino: è un pezzo di Limbadi».
Questa persona vive a Vibo Valentia, è stata a Gubbio, mai a Motta Filocastro e non sapeva che esiste. Accade quando pensi che ciò che è tuo non vale. E vieni educato a pensarlo: è la lezione della storia ai vinti. E la parola che si perde è: “Insieme”.