Il presidente del Consorzio rompe il silenzio dopo la vittoria del ricorso al Tribunale amministrativo: «La verità è nei documenti. Ma qualcuno voleva riscriverla a tavolino»
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Non è solo una questione di denominazioni, ma di rappresentanza, di memoria e di futuro. Sul bergamotto di Reggio Calabria si è consumato uno scontro silenzioso che per anni è rimasto confinato tra documenti, protocolli, istanze ministeriali. Ora, dopo la sentenza del Tar che ha riconosciuto il diritto del Consorzio a essere ascoltato, quella vicenda torna alla luce con la voce di uno dei suoi protagonisti principali: Ezio Pizzi, presidente del Consorzio del Bergamotto.
Nel racconto che affida a questa intervista esclusiva ci sono dodici anni di numeri, accordi, studi scientifici, ma anche accuse precise, tensioni istituzionali e una battaglia aperta su chi debba decidere il futuro del frutto simbolo della costa reggina. «Abbiamo costruito una filiera. Qualcuno ha provato a riscriverla da zero» dice. Ed è da lì che parte tutto.
La lunga costruzione di un equilibrio
Non è un’idea personale né un’improvvisazione dell’ultima ora. Ezio Pizzi ci tiene a chiarirlo da subito: il progetto che guida da oltre un decennio, Unionberg, è frutto di un lavoro collettivo e strutturato. «Non è una mia volontà individuale. Non mi sono svegliato una mattina per decidere il prezzo del bergamotto. Dietro c’è un sistema, ci sono 527 produttori che conferiscono prodotto per oltre 1100 ettari certificati, con tanto di documentazione firmata e allegata».
Alla base di questo percorso, c’è la sottoscrizione di un protocollo d’intesa risalente al 2010, con cui il Consorzio ha avviato un processo di stabilizzazione dei prezzi. «Abbiamo raddoppiato il prezzo base, portandolo da 18 a 36 euro al quintale, e stabilito che da quel momento non potesse più scendere, ma solo crescere negli anni successivi». Da lì, la crescita è stata costante, fino a toccare picchi «vicini ai 100 euro al quintale».
Una soglia che Pizzi stesso riconosce come forse “troppo alta”, ma che rivendica con orgoglio: «A 70 euro al quintale abbiamo conferito fino all’ultimo. È il prezzo più alto che un agricoltore possa ricavare da qualunque altra produzione».
Proprio questa remuneratività, spiega, ha incoraggiato negli anni l’impianto di nuove piantagioni, dentro e fuori dall’area protetta, arrivando però a generare uno squilibrio tra produzione e capacità del mercato di assorbire l’offerta. È in quel momento che il Consorzio individua una valvola di sfogo alternativa: la vendita del frutto fresco.
«Dodici anni fa ho iniziato a lavorare per aprire un canale parallelo. Oggi abbiamo accordi stabili con Esselunga, Coop, Conad, Orsero, mercati generali. Commercializziamo oltre 10mila quintali l’anno di frutto fresco, a prezzo fisso, dall’inizio alla fine della stagione. Abbiamo pagato 100 euro al quintale per il frutto destinato al fresco, mantenendo sempre una differenza di almeno 30 euro rispetto al frutto da industria. Perché la selezione costa, ma il valore si riconosce».
A sostenere questo percorso, non solo il mercato, ma anche la ricerca scientifica. Pizzi rivendica con forza le collaborazioni con diverse università italiane. «Abbiamo commissionato studi all’Università della Calabria, di Parma, di Napoli, di Messina, di Roma. Il primo ha dimostrato che il succo di bergamotto abbassa il colesterolo. Il secondo, pubblicato nel 2018 su riviste internazionali, ha isolato principi attivi in grado di abbassare la glicemia nel sangue. Abbiamo la proprietà intellettuale di queste ricerche. Non le ha “Pinco Pallino”. Le ha Unionberg».
Queste scoperte, unite all’impegno nel campo medico, hanno consentito di presentare il frutto fresco, oltre che come prodotto di eccellenza, anche come alimento funzionale. «Siamo stati ospiti in decine di convegni di cardiologia in tutta Italia. È stata la classe medica a sostenerci, a consigliare ai pazienti l’uso del succo di bergamotto».
E intanto, il Consorzio portava il bergamotto anche fuori dai laboratori e dagli ospedali. «All’Expo di Milano – racconta Pizzi - con due chef calabresi di fama internazionale, abbiamo fatto show cooking con il nostro prodotto. Lo abbiamo fatto conoscere anche così, con la credibilità e la bellezza della nostra terra».
Il muro contro muro sull’IGP
Il cuore della polemica esplosa negli ultimi mesi è tutto qui: nella contrapposizione tra chi sostiene la via dell’IGP – l’Indicazione Geografica Protetta – e chi, come Pizzi, difende l’estensione della DOP, già riconosciuta al solo olio essenziale, anche al frutto fresco. Ma dietro le sigle si consuma, in realtà, un confronto molto più profondo, che riguarda la rappresentanza, il potere decisionale e la stessa identità del bergamotto di Reggio Calabria.
Il Presidente Pizzi è un fiume in piena. «La nostra istanza per ampliare il disciplinare della DOP è al Ministero da agosto 2023. Ma ci siamo sentiti dire che non potevano trattarla perché era già in corso la pratica IGP presentata da altri. Questo ci ha costretti a fare ricorso al TAR». E aggiunge: «Ci hanno risposto che non potevano trattare due istanze diverse sulla stessa denominazione. Ma l’articolo 5 del decreto ministeriale del 2013 dice chiaramente il contrario: se ci sono più richieste, si deve tentare una conciliazione e poi verificare la rappresentatività. Questo non è mai stato fatto».
Secondo l’avvocato, alla base della decisione ministeriale di sospendere l’iter DOP, ci sarebbero anche dinamiche di natura politica. «Mi è stato riferito, con nomi e cognomi, che a Roma ci sarebbero state pressioni, anche da parte di un deputato europeo, per dare priorità all’iter IGP. I dirigenti con cui ho parlato mi hanno detto: “Tecnicamente avete ragione, ma su questa vicenda ci sono sensibilità politiche forti”».
Uno dei punti più controversi, per il presidente del Consorzio, riguarda un’interlocuzione avuta con la Commissione Europea da parte dei promotori dell’IGP. «Nel settembre 2024, mi risulta che sia stata inoltrata una richiesta di chiarimenti sullo stato della pratica. La Commissione avrebbe risposto che nessun dossier era ancora arrivato a Bruxelles e avrebbe ricordato, nella stessa comunicazione, l’esistenza della DOP già registrata. Ma questa parte – quella che menzionava la DOP – non è mai stata resa pubblica dai sostenitori dell'IGP. E francamente mi chiedo il perché».
Il TAR dà ragione al Consorzio: il Ministero doveva rispondere
A rimettere un primo punto fermo in questa vicenda è arrivata, il 19 marzo, la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio. Il ricorso era stato presentato dal Consorzio del Bergamotto per denunciare il silenzio amministrativo del Ministero dell’Agricoltura sulla propria istanza di modifica del disciplinare DOP, depositata nell’agosto 2023. Il TAR ha accolto in pieno le ragioni dei ricorrenti, dichiarando l’illegittimità del comportamento del Ministero e imponendo l’obbligo di pronunciarsi entro 90 giorni con un provvedimento espresso e motivato.
I giudici non hanno soltanto sanzionato l’inerzia. Hanno anche affermato un principio sostanziale: le due procedure – quella per l’ampliamento della DOP e quella per la nuova IGP – non sono mutualmente esclusive e devono essere valutate tenendo conto della rappresentatività dei soggetti proponenti. Una valutazione da fare «In parallelo – scrive il Collegio - individuando quale sia il soggetto legittimato maggiormente rappresentativo».
In altre parole, la linea seguita finora dal Ministero, che aveva bloccato l’iter DOP sulla base della “precedenza temporale” dell’IGP, non regge alla prova del diritto. Anzi, secondo il TAR, l’eventuale conflitto tra due richieste di riconoscimento deve condurre prima a un tentativo di conciliazione e poi – in caso di esito negativo – a una verifica della rappresentatività reale.
Anche su questo punto, la sentenza è chiara. «Non sussiste – si legge nel dispositivo - alcun rapporto di pregiudizialità logica o giuridica tra i due procedimenti». E aggiunge che la convocazione della riunione pubblica prevista per l’IGP non può essere considerata una risposta implicita al procedimento DOP, come invece sostenuto dall’Avvocatura dello Stato. Il Ministero, insomma, avrebbe dovuto rispondere in modo formale.
Ora il conto alla rovescia è partito. Entro tre mesi, il M.A.S.A.F. dovrà uscire dal silenzio e assumersi la responsabilità di una decisione ufficiale. Per Ezio Pizzi, questo, è solo il primo passo. «Finalmente il tribunale ha chiarito quello che ripetiamo da mesi. Ci è stato negato un diritto. Ora si faccia chiarezza e si ristabilisca un minimo di equilibrio istituzionale».
Numeri, firme e rappresentanza: il nodo della legittimità
Uno dei punti su cui Pizzi torna con maggiore insistenza è la questione della rappresentatività reale delle due anime in conflitto. Da un lato il Consorzio che guida da oltre dieci anni, dall’altro l’Associazione Temporanea di Scopo che ha promosso la richiesta di IGP. «Noi – dice – abbiamo 527 produttori che hanno firmato una dichiarazione personale, con allegato il documento d’identità, la partita IVA, la superficie coltivata e la quantità di prodotto. È tutto documentato».
Nel carteggio presentato al Ministero, il Consorzio certifica 1168 ettari di bergamotteti, su base firmata e verificabile. «Non sono numeri lanciati a caso. Ogni singolo produttore ha firmato e dichiarato il proprio impegno a essere tutelato dal nostro Consorzio. È tutto agli atti». Una procedura che contrasta, secondo Pizzi, con quella seguita dalla controparte. «I numeri dell’Associazione Temporanea – dice - sono cambiati nel tempo. Prima erano 300, poi 500, poi chissà. Ma non c’è traccia documentale autentica».
Alcuni dei nomi presenti negli elenchi depositati dall’ATS, sostiene, non avrebbero mai sottoscritto alcuna dichiarazione. «Li abbiamo contattati direttamente. Almeno 10 o 12 di loro ci hanno detto che non hanno mai firmato. Le loro firme, quindi, non sono autentiche». Una circostanza grave, se fosse confermata, e che Pizzi afferma essere già stata portata all’attenzione del Ministero.
Il tema, per lui, è dirimente. Perché è proprio sulla base della rappresentatività che, secondo la normativa, si dovrebbe decidere a chi affidare la governance di una denominazione di origine. «Non è una gara di chi urla più forte. La legge dice che bisogna vedere chi rappresenta davvero i produttori. E in questo, noi non abbiamo rivali».
Il rischio moltiplicazione e la difesa di un’identità
Lo scenario che Pizzi paventa non è solo una questione burocratica. È, a suo dire, una minaccia concreta all’unicità del bergamotto di Reggio Calabria. «L’IGP, per come è strutturata, apre la strada a un futuro in cui potremmo trovarci con il “Bergamotto di Reggio Calabria IGP”, ma anche con un “Bergamotto di Sicilia IGP”, un “Bergamotto di Rosarno IGP”, un “Bergamotto di Vibo” o della Basilicata. E a quel punto che differenza ci sarebbe rispetto alla situazione attuale? Nessuna. Avremmo distrutto un’identità costruita in decenni».
È qui che, per Pizzi, si misura la differenza tra IGP e DOP, spesso sottovalutata nel dibattito pubblico. «La DOP – spiega – impone che tutte le fasi della produzione avvengano nell’area vocata. L’IGP no: basta anche una sola fase. Potrei prendere il bergamotto dalla Sicilia, portarlo a Reggio, imbustarlo, e già diventa “Bergamotto IGP di Reggio Calabria”». Un paradosso normativo che, secondo il Presidente del Consorzio, vanifica ogni sforzo di tutela territoriale.
E ancora: «Mi si dice che il disciplinare IGP è stato blindato, che è “simil-DOP”. Ma se è così, perché non puntare direttamente alla DOP? Il problema è che quel disciplinare dell’IGP, anche se oggi è rigido, può essere modificato. Basta una delibera della governance e si apre la porta a qualunque tipo di trasformazione futura. Con la DOP questo non sarebbe possibile».
Per questo il presidente del Consorzio insiste: «Il nostro è un prodotto unico al mondo. Studi recenti dell’Università Mediterranea hanno dimostrato che anche il bergamotto di Rosarno, a un tiro di schioppo da noi, ha caratteristiche chimiche inferiori rispetto al nostro. E non parliamo del resto del mondo: il bergamotto della Costa d’Avorio, ad esempio, ha solo un terzo dei componenti chimici che ha il nostro. È un’altra cosa».
«Siamo noi che profumiamo il mondo»
Dietro i toni appassionati, c’è la consapevolezza che una scelta sbagliata oggi potrebbe compromettere tutto. «Noi profumiamo il mondo con il nostro prodotto. Il 70% delle fragranze mondiali contiene essenza di bergamotto di Reggio. Questo è il nostro biglietto da visita. E oggi rischiamo di perderlo, non perché il prodotto non sia valido, ma perché qualcuno vuole cambiare le regole del gioco».
Ci sono ancora quintali di bergamotto sugli alberi, sparsi tra le campagne di Bova Marina, Bianco, Melito, Brancaleone. Alcuni, dice Pizzi, li ha lì anche lui. «Almeno 300 quintali nel cuore di Bova Marina. Li lascio maturare il più possibile, poi li trasformiamo in essenza, sperando di riuscire a collocarla sul mercato». Non è rassegnazione. È la capacità, rara, di fare i conti con la realtà senza smettere di credere in un progetto.
«Ho fatto accordi con alcuni trasformatori per lavorare quei frutti. Non buttiamo via nulla: conserviamo l’essenza e la venderemo, magari più avanti. Intanto, a Bianco ci sono ancora tremila quintali invenduti. Ma piano piano, assorbiamo tutto. Ci stiamo riuscendo».
Anche in questo, nel rapporto con il frutto e con la terra, Ezio Pizzi rivendica una differenza. E lo fa con una frase che suona come un monito ma anche come un invito. «Io non voglio criminalizzare nessuno, ma neanche farmi criminalizzare. È vero, nel mondo si vende una quantità di prodotto venti volte superiore a quella che ricaviamo dai nostri agrumeti. Ma non è tutta colpa nostra. In Svizzera, in Inghilterra, negli Stati Uniti: lì si rivende il doppio o il triplo di quanto acquistano. Noi almeno, nel nostro piccolo, facciamo il possibile per tenere alta la qualità e l’autenticità».
Poi si ferma un attimo, e riparte, come se volesse mettere in fila tutte le cose che non accetta di sentir dire: che il bergamotto non è remunerativo. Che non esiste un futuro per la filiera. Che lui, Ezio Pizzi, è diventato il nemico del bergamotto.
«Io ho lottato per venticinque anni per costruire questo sistema. Ho portato il frutto fresco sui mercati. Ho lavorato per farlo diventare un prodotto salutistico, con proprietà riconosciute da studi universitari. Non ho mai fatto guerra a nessuno. Ma oggi mi ritrovo indicato come un ostacolo, addirittura come un nemico. È incredibile».
E se gli chiedi cosa vorrebbe adesso, non chiede medaglie. Chiede solo che si guardino i numeri, le carte, la storia. «Dal 2013 abbiamo messo il frutto fresco sul mercato. Prima non esisteva. Abbiamo profumato il mondo. Abbiamo curato le persone, grazie alle proprietà del succo. Il 70% delle fragranze mondiali contiene il nostro bergamotto. Il mondo non ci deve conoscere per la 'ndrangheta, ci deve conoscere perché lo profumiamo con il nostro bergamotto».
Poi si fa più concreto, quasi tecnico. «Il frutto fresco rappresenta oggi solo il 10-15% del prodotto complessivo. Ma se riusciamo a portarlo al 30%, a quella soglia lì, allora assorbirà tutta la produzione a un prezzo remunerativo. E questa è la strada. Non la guerra tra produttori. Non il caos delle denominazioni».
Infine, lascia cadere una frase che sembra uscita da una scena in controluce, dove si intravede un uomo che guarda indietro, ma che non ha ancora finito di combattere. «Ora sono diventato per queste persone “il nemico del bergamotto”. Va bene. Sic transit gloria mundi. Ma se il mondo oggi sa cos’è davvero il bergamotto, è anche perché qualcuno, per anni, ci ha creduto per davvero».