Gli economisti calcolano i danni della riforma Calderoli con le simulazioni sulle risorse che saranno trattenute dalle Regioni. L’Osservatorio dell’Università Cattolica: «Per ogni euro in più al Nord il Sud paga tre volte». Ecco i numeri di un (potenziale) disastro
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L’Autonomia differenziata è una trappola anche per il Nord e una bomba sganciata sul welfare del Mezzogiorno e sul bilancio dello Stato. L’Osservatorio per i conti pubblici italiani dell’Università Cattolica arriva a questa conclusione dopo un’attenta analisi delle conseguenze del Sì alla riforma voluta dalla Lega e imbastita dal ministro Roberto Calderoli.
L’intenzione di alcune Regioni del Nord è quella di trattenere nel proprio territorio una quota maggiore di risorse tributarie e contributive che hanno avuto origine da quello stesso territorio. Non è così scontato che ciò accada davvero (per le resistenze politiche anche nel centrodestra) e non è detto che l’idea non finisca per ritorcersi contro il Paese. Gli economisti Rossana Arcano, Alessio Capacci e Giampaolo Galli partono da una considerazione: «Il Pil aggregato di tutte le regioni del Mezzogiorno è piccolo rispetto a quello dell’intero Paese: circa il 22%. Se dunque le Regioni del Nord si coalizzassero per ridurre l’ammontare dei trasferimenti verso il Mezzogiorno avrebbero un pool di risorse molto scarso a cui attingere, a meno di ipotizzare dei veri e propri disastri nel sistema di welfare delle regioni meridionali».
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Autonomia differenziata: una riforma, due esiti catastrofici
Il punto è che se il Nord trattenesse per sé anche una piccola parte delle risorse con cui oggi contribuisce al bilancio nazionale, l’ammanco in termini di trasferimenti per le Regioni più povere sarebbe ben più rilevante, moltiplicato per tre volte e mezzo, proprio per la differenza del Pil. E se lo Stato intervenisse per compensarlo, rischierebbe di azzerare o quasi il suo avanzo primario (la differenza tra ciò che il Nord versa e quello che il Sud assorbe per ripianare il proprio disavanzo), il parametro più importante per il rispetto delle regole europee. Mezzogiorno senza servizi sociali o bilancio dello Stato fuori controllo: i due possibili esiti della riforma sono entrambi potenzialmente catastrofici.
Dall’Osservatorio arriva una simulazione basata sui numeri. Il primo passaggio è ancorato ai dati di Bankitalia del 2019 e racconta la situazione attuale.
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Le due posizioni sull'Autonomia differenziata
In sette regioni di Nord e Centro il gettito fiscale prodotto supera le spese di 95,9 miliardi di euro, un contributo positivo ai conti nazionali con la Lombardia nella parte del leone; le restanti, tra cui tutte quelle del Sud, spendono 64,2 miliardi più del gettito prodotto; la differenza tra le due cifre, 31,7 miliardi, tiene in positivo il bilancio primario dell’Italia (al netto degli interessi sul debito), per l’1,8% del Pil. Questo è lo status quo. La seconda simulazione mostra cosa accadrebbe a questi flussi con l’Autonomia differenziata.
Per «tanti difensori del Mezzogiorno – scrivono gli economisti della Cattolica – questa redistribuzione delle risorse è l’unica da considerare coerente con un principio di equità nonché con il dettato costituzionale che impone uguali diritti ed eguali doveri su tutto il territorio nazionale, indipendente dalla regione di residenza». Chi la pensa diversamente spiega invece «che questi enormi trasferimenti (che durano praticamente dai primi anni del dopoguerra) non sono stati utili a ridurre i divari di reddito e finiscono per condannare il Sud a essere una regione assistita».
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Autonomia differenziata, una partita da quasi 100 miliardi
Vediamo come potrebbero cambiare i conti pubblici. Se le regioni del Centro-Nord trattenessero per sé tutte (o quasi) le risorse, come proposto dal Veneto nel 2017, il costo per lo Stato sarebbe di 95,9 miliardi di euro, cioè il 5,3% del Pil nazionale e il 24% del Pil del Mezzogiorno. Se invece le regioni del Centro-Nord che contribuiscono a riequilibrare il gettito fiscale decidessero di trattenere due punti del proprio Pil regionale, l’effetto sul bilancio aggregato dello Stato sarebbe comunque importante: il saldo primario scenderebbe dall’1,8 allo 0,4% del Pil. Un peggioramento «molto rilevante in quanto a carattere permanente». Lo Stato potrebbe dunque decidere di far pagare il Mezzogiorno, riducendo i trasferimenti.
Il Sud paga 3,5 volte per ogni euro in più al Nord
Il problema è che l’economia del Centro-Nord vale il 78% del Pil nazionale, mentre quella del Sud solo il 22. Significa che ogni punto di Pil trattenuto dalle Regioni più ricche “peserebbe” tre volte e mezzo in più per quelle più povere: un guadagno relativamente piccolo per le prime si tradurrebbe così in una perdita consistente per le seconde, finendo per mettere a rischio la tenuta dei servizi.
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«Ogni punto di Pil del Centro-Nord che viene sottratto al Sud – sottolinea l’Osservatorio – si abbatte sul Sud con un moltiplicatore di 3,5. Anche questo esempio numerico mostra quanto sia improbabile che si realizzi l’obiettivo di aumentare le risorse a disposizione delle regioni Centro-Nord penalizzando le regioni del Mezzogiorno».
In sostanza, alla fine le Regioni del Centro-Nord avrebbero vantaggi piuttosto limitati, a fronte dei quali il welfare del Sud sarebbe abbattuto. E le conseguenze sarebbero simili anche se a trattenere il residuo fiscale per sé fossero soltanto Lombardia e Veneto.
Tra tutte le ipotesi sull’Autonomia emerse nel dibattito parlamentare (e anche fuori dal Parlamento), le simulazioni dell’Università Cattolica hanno il pregio di basarsi su numeri certi. I numeri, oggi, dicono che l’Autonomia differenziata ha due strade: la prima distruggerebbe il welfare al Sud, la seconda farebbe vacillare i conti dello Stato con ripercussioni imprevedibili in Europa. Come inizio non c’è male.