VIDEO | L’Accademia della Crusca ha proiettato il termine dalla saggistica al mainstream. L’antropologo che lo ha coniato ne ribadisce il senso profondo: «“Qui” non è un inferno e altrove non esiste un paradiso. Dobbiamo impegnarci per costruire quello che manca e rendere i nostri paesi luoghi abitabili»
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Restanza: una parola dal suono antico e dal significato arcaico che conosce una nuova primavera semantica, entrando in modo sempre più frequente (e persistente) nel lessico corrente della lingua italiana. Quel termine che indicava fin dal Trecento la rimanenza, il resto di qualcosa che avanza, sovrabbonda, eccede, si (ri)definisce ora nella scelta di chi resta nei suoi luoghi d’origine, di chi consapevolmente li sceglie come perimetro della propria esistenza e delle proprie relazioni umane, sociali, professionali, culturali. In un’opposizione non antitetica, anzi strettamente correlata, alla speculare scelta della partenza.
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Un neologismo semantico, come lo classifica l’Accademia della Crusca che nel 2023 ha inserito restanza nelle parole nuove che «si diffondono ed entrano negli usi collettivi della lingua per un periodo di tempo significativo», che si deve principalmente all’opera e agli studi dell’antropologo calabrese Vito Teti, di San Nicola da Crissa, già ordinario di Antropologia culturale all’Università della Calabria. Tra i più autorevoli esponenti della ricerca sociale italiana, che si è a lungo dedicato allo studio dei fenomeni migratori, in particolare dal Sud verso il nord Europa e le Americhe.
Il portato rivoluzionario della restanza
Un riconoscimento significativo che pone lo studioso, a pieno titolo, tra i calabresi dell’anno per la risonanza che i suoi studi sulla restanza hanno avuto nel 2023 e, al tempo stesso, che certifica la diffusione del nuovo concetto di restanza e del suo portato rivoluzionario. Uno spessore che si esplica, sempre secondo la Crusca, nell’«atteggiamento di chi, nonostante le difficoltà e sulla spinta del desiderio, resta nella propria terra d’origine, con intenti propositivi e iniziative di rinnovamento».
È «la posizione di chi decide di restare, rinunciando a recidere il legame con la propria terra e comunità d’origine non per rassegnazione, ma con un atteggiamento propositivo», secondo il prestigioso dizionario Treccani che ospita il lemma tra i neologismi fin dal 2017. Teti lo aveva definito nel suo “Pietre di pane. Un’antropologia del restare” (Quodlibet, 2011), in correlazione «all’erranza e all’avventura del viaggiare intesa come complementare a quella del restare».
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Restanza, dalle aree interne alle periferie suburbane
Lo ha sviscerato nella sua interezza nel saggio omonimo, “La restanza”, edito da Einaudi, nel 2022. Non a caso dopo la pandemia che ha costretto a rivedere il senso e i modi dell’abitare. Pubblicazione fortunata, recentemente giunta alla quinta ristampa. A testimoniare l’interesse crescente sul tema.
Non staticità, dunque, ma attivismo della restanza fino a farne gesto politico, scelta militante di chi la pratica. Non solo e non necessariamente nei piccoli centri delle aree interne del meridione d’Italia o della dorsale appenninica, ma anche nelle periferie suburbane e nelle metropoli, con la volontà di restituire ai luoghi nuove cornici di senso e di praticare azioni di rigenerazione sociale. Una parola che possiede in nuce, dunque, una naturale cifra politica, di resistenza e rinascita, in grado di ispirare azioni, iniziative, riflessioni e risposte.
Come testimonia il Villaggio della restanza che ha visto la luce a Vibo Valentia nei giorni scorsi e dove testimonianze e buone pratiche di restanza hanno avuto una loro rappresentazione pubblica. È lì che abbiamo incontrato il professor Vito Teti per una riflessione sulla parola e sui nuovi significati che essa assume.
Vito Teti: «Restare per cambiare le cose»
«Il termine ha una storia molto antica - esordisce Teti -, era usato già nel Medioevo in altre accezioni. E quando le parole nascono o assumono un significato nuovo è perché esse rappresentano, raffigurano e raccontano una realtà. Ricordo la nascita del termine “nostalgia” che in qualche modo osservava la malattia dei militari svizzeri. Io, nello studiare l’emigrazione da molti anni, ho cominciato a soffermarmi sui comportamenti, sulle azioni, sui sentimenti di coloro che restavano. A partire dalle donne che vedevano i loro uomini andare via. Poi, nell’università, ho cominciato a capire che molti dei ragazzi che studiavano e aspettavano di laurearsi per andare via, non erano molto propensi a farlo. Andavano via perché costretti dalla mancanza di lavoro, perché non c’erano e non ci sono tutt’ora opportunità concrete. E quindi questo atteggiamento, sentimento, desiderio di non andare via, di restare, diventa una restanza nel senso che io do al termine. Un significato dinamico, attivo».
Eppure il “restare” lascerebbe pensare a qualcosa di statico, quasi di rassegnato. «Al contrario. Restare non per mantenere le cose come sono ma restare per cambiarle, per migliorare l’ambiente in cui si è nati, per avere cura dei luoghi. Quindi non è un termine statico ma oserei dire che ha a che fare anche con l’erranza, con lo sradicamento, con l’esilio. Perché solo sentendosi spaesati anche nel posto in cui si vive, si sente il bisogno e la necessità di adoperarsi perché le cose vadano meglio. Di trovare un’altra strada, un’altra via per il luogo in cui si è nati, in cui si vorrebbe restare ma dal quale spesso si è costretti a fuggire».
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La nostalgia di un presente da rivoluzionare
C’è poi chi la riduce la restanza a una forma nostalgica di un passato ormai perduto. Una sorta di malinconia per il tempo che fu. Per Teti «solo una lettura approssimativa di questo termine può restituire una visione nostalgica o melanconica o lo può ridurre a una specie di slogan o di gadget. Siamo, in realtà, di fronte ad un fenomeno dalle molte facce che parla non di nostalgia del passato ma di nostalgia del presente, di quello che c’è da fare qui e ora. Iniziative come questa (il Villaggio della restanza, ndr), dove tanti giovani si mettono assieme, partendo dalla socialità dei luoghi per creare - sottolinea lo studioso - occasioni di rigenerazione, di rinascita, io le trovo qualcosa di molto nuovo, di rivoluzionario. E anche di molto più impegnativo del partire».
Il riconoscimento da parte dell’Accademia della Crusca della parola restanza, ne certifica l’affermazione nella lingua corrente. La fa uscire dalla saggistica, la rende mainstream. E le restituisce un significato rilevante sul piano culturale. «Un significato enorme. Vuol dire che il termine è entrato nel dibattito sociale, culturale, politico. Moltissimi romanzi, molti film, artisti, studiosi, adoperano ormai questo termine più o meno nell’accezione che io ne ho dato. E questo vuol dire che si registra qualcosa che sta avvenendo nella realtà. Non è qualcosa di effimero ma è il riconoscimento di una realtà in movimento, o del movimento della realtà, che parte dall’idea che il cambiamento deve avvenire qui. Che “qui” non è un inferno, che altrove non esiste un paradiso. Che - aggiunge l’antropologo - dobbiamo scoprire il senso dell’abitare, del vivere, del relazionarci, per costruire un nuovo futuro nel posto in cui siamo nati».
Non si pone, per Teti, neppure il rischio di precludersi delle esperienze, delle possibilità, rimanendo ancorati a realtà che spesso oggettivamente non soddisfano tutte le aspettative. «Le due cose non sono in antitesi - spiega non a caso -. Partire, viaggiare, è bello e si deve fare. Ma le due cose si combinano e noi dobbiamo garantire lo stesso diritto a chi ha voglia di restare ma anche a chi ha voglia di partire. Restare è un diritto dei giovani, delle persone, delle associazioni, di quanti vogliono cambiare i loro luoghi, che amano la terra in cui sono nati e che pensano di poter creare condizioni nuove per renderla abitabile, vivibile, spendibile nel senso buono del termine».
«Restare per rendere i luoghi abitabili»
Per molti piccoli centri delle aree interne che combattono contro lo spopolamento la restanza appare come l’ultima risorsa. «Se la gente non restasse e se ne andassero tutti, i paesi morirebbero - annota lo studioso -. Restare è la precondizione per far vivere i paesi. È l’ultima risorsa nel senso che il rischio abbandono e spopolamento delle aree interne è fortissimo. Restare innanzitutto. Poi restare per cambiare le cose, per rendere quei luoghi abitabili e non per tornare al passato. Per creare una nuova socialità, una nuova economia, nuovi rapporti. Credo che sia una delle poche possibilità perché questi luoghi non muoiano».
Restare innanzitutto. Ma poi come si cambiano i paesi? La risposta apre ad un universo di possibilità. «C’è chi resta e produce, chi fa rivivere l’artigianato, chi utilizza lo smart working, chi fa associazionismo. Certo, ci vuole anche molta immaginazione. Da questo punto di vista restanza è un termine che fa anche sognare perché ha a che fare con l’inventiva. Quando tutto ti è dato in qualche modo ti impigrisci. Quando qualcosa manca ti adoperi con la mente, con la fantasia, con l’arte, la cultura, perché quel qualcosa che manca venga costruito. Allora, da questo punto di vista, penso che sia una risorsa ineliminabile. Una condizione indispensabile - conclude Vito Teti - per non vedere lentamente svuotarsi i nostri paesi».