I “tentacoli” dei clan su Vibo Valentia e il distacco dalla famiglia una volta intrapresa la strada della collaborazione con la giustizia. Attraverso l’esame degli album fotograficiGaetano Cannatà ha ripercorso i suoi ricordi su ogni singolo personaggio riconosciuto ed alla fine ne è uscito fuori “l’affresco” su diversi personaggi e sul loro modus operandi.

Innanzitutto, rispondendo alle domande del pm della Dda di Catanzaro, Antonio De Bernardo, il collaboratore ha riconosciuto in foto il carabiniere di nome “Antonio” che avrebbe passato notizie ai sodali del clan Pardea su indagini in corso e che corrisponde ad Antonio Ventura, sotto processo proprio In Rinascita Scott. Quindi ha confermato l’attività di usura fatta da Giuseppe Barba, detto “Pino Presa”, il suo inserimento nel clan Lo Bianco-Barba ed anche l’inserimento lavorativo di quest’ultimo all’interno dell’ospedale di Vibo Valentia.

Ha poi riconosciuto in foto Vincenzo Franzone «che aveva un autosalone a Roma ed era dedito al traffico di marijuana – ha affermato Cannatà – ed è fratello di Domenico Franzone che invece fa parte della ‘ndrangheta e del clan Lo Bianco-Barba. In particolare, mio cognato Carmelo Pugliese, marito di mia sorella, disse a sua fratello Rosario Pugliese di trovare un posto di lavoro a mia moglie. Rosario Pugliese si è così rivolto a Domenico Franzone che fece assumere per sei mesi mia moglie in una ditta che lavorava all’ospedale di Vibo. Rosario Pugliese disse che Domenico Franzone orbitava nell’ambiente dell’ospedale per conto della consorteria dei Lo Bianco e loro avevano il potere di far assumere queste persone. Anche mia cugina è stata assunta in ospedale, così come in ospedale lavoravano da vecchia data Paolo Lo Bianco quale ascensorista e pure Pino Barba».

Gaetano Cannatà ha poi riconosciuto in foto «Marco Startari, cognato di Salvatore Morelli», Enzo Barba, Domenico Camillò (cl. ’41) «a cui andavano i soldi delle estorsioni per il suo gruppo», Daniele La Grotteria, Sergio Gentile, Giuseppe Accorinti di Zungri, Mario Lo Riggio «imprenditore che aveva la concessionaria Nissan», Mario De Rito di Vena “che aveva una lavanderia industriale”, Domenico Pardea «che operava a Pizzo – ha affermato Cannatà – per conto del clan Pardea di Vibo e si scriveva in carcere con Daniele La Grotteria ed è fratello di Antonio Macrì anche se portano due cognomi diversi», Nazzareno Franzè, detto Paposcia, Michele Lo Bianco «fruttivendolo, detto U Ciucciu», Antonio Macrì «al vertice del gruppo Pardea insieme a Domenico Camillò», Antonio «detto Lorduni di cui non conosco il cognome ma che era ai vertici del clan Lo Bianco», Michele Dominello «cugino dei Macrì ed utilizzato per compiere i danneggiamenti», Luigi Federici, «pure lui utilizzato dal clan Pardea per fare danneggiamenti», Franco Barba «che ha patteggiato la pena nel processo Nuova Alba ed era per questo mal visto dagli altri perché aveva di fatto aperto al strada al riconoscimento giudiziario del clan Lo Bianco-Barba», Mommo Macrì e Francesco Antonio Pardea «che intrattenevano rapporti anche con gli altri clan del Vibonese e della Calabria».

Su altri personaggi, Gaetano Cannatà si è poi soffermato maggiormente. Come «Massimo Pannaci, compagno di mia sorella, il quale inizialmente era un imprenditore serio, poi si è messo nel giro degli stupefacenti e lui stesso mi disse che era un narcotrafficante. Per colpa sua mia sorella Melina è rimasta coinvolta nell’operazione Stammer 2-Melina perché Pannaci le aveva intestato delle schede telefoniche che utilizzava per parlare con i narcotrafficanti. Poi mia sorella è stata per fortuna assolta».

Su Salvatore Tulosai, invece, Gaetano Cannatà ha affermato che Carmelo D’Andrea lo indicava come appartenente inizialmente al clan guidato «da Francesco Fortuna, detto Ciccio Pomodoro, in quanto sposato con una sua nipote, e poi come organico al clan Lo Bianco. Salvatore Tulosai – ha dichiarato il collaboratore – lavora in ospedale dove fanno le lastre, e negli ultimi anni si è distaccato dalla cosca Lo Bianco-Barba. Il gruppo Pardea gli ha anche incendiato una macchina».

Michele Manco «che insieme alla moglie Rossana Morgese – ha affermato Cannatà – lavora all’Eurospin, era il soggetto che predisponeva le lettere anonime per conto del gruppo dei Pardea. Vicino alla cosca sarebbe anche “Carmelo Chiarella, tutilizzato dal gruppo dei Pardea per fare le estorsioni alla bartolini, a Corigliano ed a Mirabello quello dei mobili».

A mettere poi a disposizione del gruppo dei Pardea la «propria casa a Bivona era Michele Lo Bianco, detto Satizzo, parente dei Camillò per averne sposato una cugina. Michele Lo Bianco metteva a disposizione il suo appartamento per le riunioni di ‘ndrangheta del gruppo dei Pardea-Ranisi. Fatto che – ha aggiunto Cannatà – mi è stato raccontato da Giuseppe Camillò». Secondo Cannatà, inoltre, in carcere Giuseppe Camillò e Luciano Macrì, quest’ultimo “coinvolto in un sequestro di persona insieme a Vacatello” avrebbero commentato negativamente il fatto che – a loro avviso – Bartolomeo Arena aveva risparmiato dalle accuse «Raffaele, Lello, Pardea, il quale era invece affiliato al gruppo dei Pardea Ranisi ed insieme a Luciano Macrì aveva sparato ad una pizzeria a Vibo Marina».

Uniti dal traffico di droga, ad avviso del collaboratore, sarebbero stati poi Vincenzo Lo Gatto e Domenico Prestia, entrambi «affiliati alla cosca Lo Bianco, per come mi raccontava pure salvatore Furlano. Domenico Prestia, oltre ad avere una cartolibreria, si occupava del servizio di catering nelle scuole di Vibo ed aveva monopolizzato il settore, specie alla scuola Industriale. Gestiva pure un bar vicino piazza San Leoluca».

Menzione a parte anche per Leoluca Lo Bianco, detto “U Rozzu”, «affiliato alla cosca Lo Bianco, ma allontanatosi dal clan dopo la carcerazione per l’operazione Nuova Aba. Carmelo e Giovanni D’Andrea – ha ricordato Cannatà – dicevano che U Rozzu aveva fatto un passo indietro nella ‘ndrangheta per non ostacolare le mire espansionistiche del nipote Salvatore Morelli, detto l’Americano. Leoluca Lo Bianco è infatti lo zio di Salvatore Morelli».

«In società nel settore delle pompe funebri, Gaetano Cannatà ha poi indicato Rosario Pugliese, detto Cassarola, e Orazio Lo Bianco. “Carmelo D’Andrea mi disse che Rosario Pugliese era un fedelissimo di Francesco Fortuna, detto Ciccio Pomodoro, poi ha fatto parte della cosca Lo Bianco-Barba. I suoi figli frequentavano Loris Palmisano. Orazio Lo Bianco, invece, vantava tante amicizie all’interno dell’ospedale di Vibo e sembrava il padrone in ospedale perché conosceva tutti, apriva le porte, parlava con tutti senza farsi problemi. Lui era nipote diretto di Francesco Fortuna, detto Ciccio Pomodoro, in quanto figlio di una sorella, e spesso spendeva in giro il nome del defunto zio – ha affermato Cannatà – per farsi forte. So che faceva pure il servizio di catering al segretario d’azienda».

Infine un accenno alla propria famiglia di sangue. «Da quando ho iniziato a collaborare con la giustizia – ha concluso Cannatà – la mia famiglia mi ha cancellato»