Le ruspe sono tornate: in piena area aercheologica. A valle delle mura greche di Vibo Valentia stanno minacciosi i nastri, le reti, le ombre dei cartelloni di cantiere. L’area è quella compresa tra il capannone commerciale di Splendidi Splendenti, l’Ufficio provinciale del lavoro, i distributori di Agip ed Esso. La strada, è la provinciale per Sant’Onofrio: quella, per intenderci, per lo svincolo autostradale. Qui, da qualche tempo, alzando lo sguardo, si vede una intensa attività di mezzi meccanici, che insiste nella zona dove sussistono i resti delle mura greche, (tra l’altro non visitabili da 4 anni): la vicinanza con il simbolo stesso della città voluta dai locresi come avamposto commerciale e strategico sul Tirreno è inquietante.

 

Un cantiere dentro l'area protetta

In realtà la zona di pertinenza delle mura, fino alla Provinciale, sarebbe protetta da 42 anni, ovvero dal 1977: e lo sarebbe grazie ad un vincolo rigidissimo, emanato dall’allora Ministero dei Beni Culturali, a salvaguardia dell’integrità e della specificità dei 500 metri di mura greche al Trappeto Vecchio, che comprende anche l’area di rispetto del monumento. Oggi, questo lembo di terra subisce una profonda violazione in netta contrapposizione con il decreto di vincolo; ed uno dei baluardi fondamentali della tutela del ricco patrimonio archeologico vibonese rischia di cadere.
Facciamo un passo indietro: nel 2018, la Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Reggio Calabria e la Provincia di Vibo Valentia e la Regione Calabria sottoscrivono una convenzione per eseguire parte dei lavori anche in una porzione dell’area sottoposta al vincolo che nei suoi dettami pone il divieto assoluto di: “eseguire la costruzione di nuovi edifici…, creare cave..., apporre cartelli pubblicitari..., di mettere a dimora alberi...” e soprattutto “ divieto di tracciare nuove strade, o allargare sentieri esistenti, procedendo a sbancamenti o riporti che alterino l’aspetto attuale della zona…” nella fascia antistante i 500 metri del tracciato murario, sotto la spinta della necessaria costruzione del nuovo nosocomio provinciale. Di certo, le ruspe stanno lavorando nella zona vincolata. Che l’archeologa Anna Rotella conosce molto, molto bene, avendola studiata per anni ed anni.

Come è stato possibile?

«Non lo sappiamo. Certo è che oggi, in quest’area, è stato aperto puntualmente un cantiere. La dicitura della cartellonistica fa riferimento a “lavori di viabilità e regimentazione delle acque”, non meglio identificati. Forse, si allude alla costruzione di arterie funzionali alla realizzazione del nuovo ospedale, la cui pertinenza è adiacente all’area archeologica. 


Cosa sta succedendo al Trappeto vecchio?
«I lavori che si stanno facendo con il placet della Soprintendenza sono stati autorizzati in profonda contrapposizione con quelli che sono i dettami specifici della tutela ed è per questo che l’Archeoclub, il Wwf, l’Associazione Italiana di Cultura Classica e il Forum delle Associazioni sono in attesa di avere accesso agli atti relativi al provvedimento».


Dove ci troviamo, esattamente?
«Siamo nell’area antistante i 500 metri di cinta muraria a vista indagati e studiati per la prima volta da Paolo Orsi, nel corso delle campagne di scavo vibonesi tra il 1919 ed il 1921. Un’area strategica, nella fase greca teatro di aspre battaglie, ed in epoca romana coincidente, con ogni probabilità, con il tracciato della via Annia-Popilia, dove sia negli anni Settanta, durante i lavori per la costruzione dei capannoni commerciali, che negli anni Novanta, durante le indagini per la costruzione degli istituti scolastici a valle della strada, sono state rinvenute tombe e strutture riferibili ad una necropoli: a conferma dell’ipotesi che ci si trovi ai lati di un’importante strada romana».


Quindi, una zona tutelata….
«Assolutamente sì. Un’area protetta dal Ministero sin dal 1977 da un decreto di vincolo, di estrema stringatezza, modernissimo e di grande sensibilità. Un vincolo che esprime tra l’altro come questo tratto non sia da tutelare solo in sé, ma anche nella sua integrità paesaggistica, nel paesaggio circostante, che ne mantiene l’identità».


Cosa si voleva tutelare con questa disposizione? 
«Un vincolo di questa portata ha come unico e assoluto obiettivo quello di scongiurare qualsiasi tipo di trasformazione dello stato dei luoghi. E che quest’area è pregnante di messaggio storico e come tale deve essere rispettata lo conferma anche un’azione successiva del Mibact, che nel 2005, arrivava all’esproprio dei terreni circostanti, di proprietà della famiglia De Riso, proprio a scongiurare ulteriori modifiche del paesaggio. Sulla carta, per il rispetto dovuto al vincolo del 1977, la zona avrebbe dovuto essere risparmiata da qualsiasi attività antropica che poteva modificare lo stato dei luoghi. Quindi, ripeto: i lavori sono stati autorizzati in contrapposizione con i dettami specifici della tutela. Ed invece, dobbiamo operare tutti, per garantire l’integrità stessa della conservazione, per chi verrà dopo di noi. A prescindere dalla presenza o meno di resti archeologici nella zona interessata da questi lavori».


Cosa rappresentano, per Vibo, le mura greche?
«Le mura sono il simbolo stesso del ruolo della città a cavallo tra VII e III secolo avanti Cristo: mura ciclopiche, tali da dissuadere aggressori di mare e di terra. Coprivano un perimetro di 7 chilometri, studiato dai fratelli Pignatari prima, e da Vito Capialbi poi. All’epoca, siamo nel 1832, se ne intravedeva una parte importante, comprese le torri relative alle sei fasi costruttive».

 

Le mura, nel 2016, erano sono state al centro di un caso nazionale: quello della scoperta di nuove porzioni di cinta muraria, e della loro copertura. In che modo quanto accaduto in passato si riaggancia alle ultime vicende?
«Le due vicende, pur presentando profonde differenze formali, hanno portato allo stesso risultato iniquo per il patrimonio archeologico della città: nel 2016 sulle nuove mura rinvenute in Via Paolo Orsi, la Soprintendenza non ha fermato i lavori. La giustificazione addotta, il fatto che la strada non fosse vincolata, che i lavori erano stati autorizzati senza l’applicazione dell’”archeologia preventiva”, e che ormai era tardi per fermarsi. Oggi, su un terreno vincolato da più di trent’anni, la Soprintendenza ha comunque autorizzato i lavori a dispetto del vincolo archeologico, senza nessun riferimento all’applicazione della tanto osannata “archeologia preventiva”. L’area a valle delle mura greche al Trappeto Vecchio è teatro di cantiere. I due avvenimenti documentano la profonda crisi da parte delle istituzioni, in particolare del Mibact nel suo ruolo di ente chiamato a sovrintendere alla salvaguardia del patrimonio, nel valutare e stabilire le priorità nei conflitti tra patrimoni culturali storicizzati e quelli pubblici di momentanea utilità».


Lei ha avuto un ruolo chiave, nella vicenda del 2016...
«Purtroppo, sì. Nel 2014 avevo avuto la fortuna di ritrovare, nell’Archivio della Soprintendenza, uno schizzo di Rosario Carta, disegnatore di Paolo Orsi. Illustrava una delle torri circolari delle mura, la numero IX, non visibile ma che avevo localizzato proprio lungo la via. Nel 2006 c’era stato un crollo, uno smottamento lungo la strada, in un punto che per me coincideva con la posizione esatta della torre: e in quei giorni, era l’inizio del 2016, era stato avviato dal Comune il cantiere che doveva eseguire i lavori di ripristino della viabilità. Sono andata in cantiere un venerdì pomeriggio, per cercare conferma alla mia ipotesi, e quello che ho visto, mi ha trascinato in uno stato di profonda costernazione. La gioia per la conferma della presenza dei resti della torre IX nel punto dove l’avevo ipotizzata è stata subito annientata dallo sconcerto per i molti tratti delle mura a vista nella trincea di scavo, e per la messa in opera di una condotta già per una buona parte interrata, realizzata a dispetto del rinvenimento. Tra l’altro, su alcuni blocchi delle mura a vista presenti nella trincea, erano evidenti le dentate delle ruspe, ed altri blocchi letteralmente coperti dal grande tubo. A completare il danno, parti dei blocchi di arenaria componenti le mura, frammenti fra i cumuli della terra dello scavo depositata vicino all’area di cantiere (che tra l’altro sarebbe scomparsa, rimossa in tutta fretta, subito dopo la mia perlustrazione, il lunedì successivo alla ripresa dei lavori)».

 

Come ha gestito la situazione?
«Sono tornata a casa frastornata. Ho riflettuto per 24 ore e ho fatto l’unica cosa possibile: telefonare all’ispettore della Soprintendenza, il responsabile per il territorio, dr. Fabrizio Sudano. Gli dissi della visita che avevo effettuato, dei danni trovati e dei lavori che si stavano portando avanti sopra le mura, e nonostante le mura. Ma non sono riuscita a risolvere nulla. Anzi. Ho provato a coinvolgere quelli che potevano avere a cuore il destino del nostro monumento, ma tutti hanno capitolato davanti alla presenza delle autorizzazioni della Soprintendenza. Niente e nessuno è riuscito a cambiare il corso degli eventi, il cantiere è stato “blindato” e a nessuno è stata più data l’opportunità di entrare»(a fianco, il disegno di Antonio Montesanti)

 


Come spiega questo esito?
«Purtroppo è stato evidente che la Soprintendenza non ha chiesto il sostegno della società civile per affrontare l’impasse amministrativo che stava limitando la possibilità di tutela, bensì per la “blindatura” del cantiere, minimizzando la portata del rinvenimento. Vana è stata la costituzione del “Comitato pro mura greche”, la raccolta di firme, le varie interpellanze parlamentari, la venuta a Vibo del direttore generale del Ministero dei Beni Culturali Gino Famiglietti. Quando seppi che sarebbe arrivato in città persino lui, Famiglietti appunto, in veste di Soprintendente avocante, ho creduto per un attimo che si potesse fare qualcosa per restituire dignità al nuovo tratto. Ho sperato si potesse passare dagli attuali 500 agli 850 metri lineari di mura visitabili: ma è stato tutto inutile. Mibact e Comune hanno raggiunto un accordo, con buona pace del Sindaco Costa, che voleva quella strada a tutti i costi».

 


Che accordo?
«Grazie ad una legittima quanto forzata interpretazione delle norme, a lavori già fatti si sono autorizzati 4 o 5 interventi di “archeologia preventiva”, e contestualmente si è previsto il completamento dei lavori. Ormai il cantiere, nonostante le proteste, era in stato avanzato: la strada, a detta loro, andava completata. Nessuno intendeva farsi carico delle conseguenze del “tornare indietro”, nonostante le monumentali evidenze archeologiche».

 

In quell’occasione venne a Vibo anche Montanari…
«Già. Anche l’arrivo in città di Tomaso Montanari, che si era appena schierato a favore della salvaguardia dei resti archeologici davanti al selciato della chiesa della Madonna di Capo Colonna, non è servita a scongiurare il prosieguo dei lavori. Lo storico dell’arte, dopo il sopralluogo sulla via Orsi, ha comunque sancito l’ineluttabilità della situazione vibonese. E questo, ovviamente, ha lasciando l’amaro in bocca a quanti da una personalità così in vista non se lo sarebbero mai aspettati».


Come si erano potuti autorizzare i lavori?
«Secondo quanto dichiarato dal Famiglietti, nel 2012 si erano autorizzati i lavori, senza che si prevedesse una adeguata indagine preventiva. Tutti gli intervenuti nella vicenda hanno riconosciuto in questo passaggio il vero errore, la causa per la quale non si poteva più tornare indietro. E tuttavia, anche dopo il rinvenimento delle mura, l’amara certezza è che il Mibact, dopo aver comunque previsto i cinque interventi di indagine preventiva in via Paolo Orsi, ha autorizzato il loro prosieguo. Ed il 14 marzo 2018, ha finito con l’imporre il vincolo archeologico su un asfalto nero lucente, da poco posato sul tubo che copriva il nuovo tratto emerso». (SEGUE)