VIDEO | Intervista allo scrittore di Santa Cristina D’Aspromonte sulla sua ultima fatica letteraria che narra dell'emigrazione italiana negli Stati Uniti: «Covava dentro di me l’idea di questo sogno americano che era in realtà un grande inganno contro cui impattarono i nostri emigranti, subendo il pregiudizio e finanche il linciaggio»
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Dai Nebrodi al Sud degli Stati Uniti, Mimmo Gangemi tira un filo sottile ma robusto, unendo due mondi come fossero pianeti opposti. Lo scrittore di Santa Cristina D’Aspromonte è tornato in libreria con “Il popolo di mezzo” (Piemme), riscuotendo da subito un successo tonante, e lo ha presentato mercoledì sera a Mendicino per la rassegna “Libri a... Palazzo”.
Il romanzo ha partecipato alla corsa per la candidatura allo Strega, accompagnato dalle parole di Raffaele Nigro che scrisse: «Un romanzo duro e struggente, scritto con una maestria non facile da trovare di questi tempi. Al centro, il siciliano Tony Rubbini, che dall’aver assistito all’impiccagione dei genitori, senza una ragione e senza un processo, imparerà a odiare l’America e a combatterla con l’esplosivo».
La terra delle illusioni
L’epopea che Gangemi dipinge è l’epica della disillusione, è il giorno atteso in cui però piove, in cui i colori i colori delle grandi aspettative si riducono a stracci appesi a colare su una terra promessa sempre troppo brulla per poter coltivare i frutti migliori.
«Covava dentro di me l’idea di questo sogno americano che era in realtà un grande inganno contro cui impattarono i nostri emigranti, subendo il pregiudizio e finanche il linciaggio» racconta Gangemi. «Un Paese come gli Stati Uniti, che vantava di essere la più grande democrazia del mondo, in realtà tale non era, non poteva esserlo e non lo è ora, perché la democrazia è democrazia se è per tutti e le cronache, lo sappiamo, raccontano un’altra storia».
Gangemi, siamo ancora il popolo di mezzo?
«Beh, tendiamo a pensare che il popolo di mezzo sia una definizione che ci siamo scrollati di dosso e che vediamo solo nella pelle indossata da altri. In realtà non facciamo che commettere gli stessi errori dei nostri antenati quando quando emigrarono, nel periodo tra la fine dell’ ’800 e i primi decenni del ‘900, negli Stati Uniti, in particolare, come scrivo nel libro, in Louisiana, scontrandosi con il razzismo spinto fino al linciaggio».
Uno Stato che raramente compare nelle cronache dell’emigrazione italiana
«Pochi sanno che lì arrivarono frotte di italiani partiti dalla Sicilia verso New Orleans. Il piroscafo Montebello, all’andata, partiva da Palermo, carico di agrumi ed emigranti stipati nella stiva, al ritorno in America con pochi emigranti di rientro e le balle di cotone».
Qual è stata la scintilla che ha acceso questa storia nella sua mente?
«Mi ha ispirato principalmente il jazz, l’avere scoperto che è patrimonio sia dei neri e che dei siciliani, a pari merito: i primi ci misero dentro l'aria degli spiritual, i secondi contribuirono con gli strumenti a fiato, che i neri non avevano, e le sonorità delle bande tradizionali che avevano importato nei loro luoghi di emigrazione».
Nel suo libro c’è anche, forte, il tema dell’anarchia
«Oltre al jazz ho anche preso atto di un’altra forma di ribellione, che era patrimonio degli italiani: l’anarchismo. “Il popolo di mezzo” si snoda, tra queste due anime: il jazz e l’anarchia».
Nel suo romanzo scrive della sofferenza e delle ingiustizie profonde che subirono gli italiani giunti negli Stati Uniti
«Noi “popolo di mezzo” eravamo i più neri tra i bianchi e scontavamo, agli occhi degli americani, la colpa di fraternizzare con i neri. In più accettavamo di svolgere i lavori che gli altri rifiutavano: piegare le schiene a raccogliere cotone e barbabietola, una delle occupazioni più crudeli perché avveniva ad agosto sotto il sole cocente della Louisiana che tagliava i reni uccidendo tante persone, o sui cantieri ferroviari. Mio nonno materno mi raccontava spesso le sue vicende americane, del suo lavoro come capocantiere nella costruzione della ferrovia che puntava verso il Texas. Gli diedero come soprannome quello di “boss” e grazie alla sua posizione riuscì a far arrivare in America dall’Italia sessanta famiglie. Lui tornò in Italia nel 1915 cedendo al grande inganno che diffusero ad arte secondo cui chi non fosse tornato per servire la Patria non sarebbe più potuto tornare in America».
Ogni scrittore sa quando una storia arriva tra le sue mani, a volte basta un’immagine, il sussurro di una chiacchierata per far esplodere l’urgenza di scrivere
«A me non succede mai quando mi raccontano qualcosa anche di gustoso, quel qualcosa mi scatta per una piccola cosa che osservo, basta anche una semplice parola, allora mi passa un’immagine subito nella testa che mi induce di raccontare quella storia e non un’altra».
Si dice spesso che gli scrittori non riescono ad essere più lettori, per lei è così?
«Io tendo a non leggere affatto quando sono nel massimo della mia creatività, mi sono accorto che se leggo in quel momento tendo ad assorbire troppo degli altri. Per il resto invece leggo molto, anzi, ascolto molto perché da qualche anno utilizzo Audible».
C’è un’altra storia che bussa già per entrare?
«Ci sono tante storie che hanno già bussato e che ho già aperto, ho tanti inediti da parte perché la mia scrittura è più veloce delle mie pubblicazioni»