FOTO | Il successo internazionale, i progetti e poi la lotta contro il cancro: la storia di uno dei talenti più promettenti del momento che ama ridare nuova vita alle cose rotte
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Nel paradiso delle cose rotte, dei bicchieri sbeccati, delle latte ammaccate, c’è ancora vita. Non è un pianeta disabitato, galleggia un pelo sotto al nostro, dentro quel buco nero in cui cadono gli oggetti che non si trovano più o che si vogliono nascondere perché non si ha il coraggio di disfarsene.
Quelle cose sono storie che profumano del caffè in barattolo della mamma, delle molle di vecchi orologi da camera, del gasolio che riposa sul fondo delle taniche in garage. Sono dagherrotipi su cui il calore della vicinanza ha creato un imprinting che niente potrà cancellare. Sono particelle che creano con chi li ascolta un entaglement, quel contatto che una volta creato, non si spezza mai più.
Ecco, in quel posto dove riposano i giocattoli dimenticati come i resti di un passato raffreddato dalla dimenticanza, Massimo Sirelli ha ritrovato un po’ se stesso, un po’ il tempo degli altri.
Nato a Catanzaro, classe 1981, da piccolo ha girato il mondo insieme alla sua famiglia rimanendo abbagliato dalla street art e riportandone lo spirito nella sua città dove è diventato, appena adolescente, il capostipite di un movimento, quello della graffiti art, di cui nessuno ancora parlava. E oggi le opere di Sirelli sono arrivate fino a Dubai. La sua “Family Robots 2019” è stata scelta, unica creazione italiana, come installazione permanente a Jumeirah Road.
Riavvolgiamo il nastro, perché la memoria è un elemento importante di questa storia. Dopo il liceo Massimo è arrivato al Nord, a Torino. Prima gli studi allo Iulm, poi, anni dopo, il salto dall’altra parte della cattedra come docente, non solo a Torino ma anche a Milano e Como.
Si affina, non smette mai di imparare, ormai è un designer affermato, tra i più interessanti artisti emergenti italiani di pop e urban art e pubblica su alcune delle riviste di grafica e web design più importanti al mondo (Tashen, Gestalten, PepinPressma).
Nel 2016 arrivano i robot.
Massimo, nel 2016, hai lanciato nel mondo un progetto di adozione molto particolare.
«Sì, particolare perché i figli da adottare erano dei robot».
Racconta.
«Ho sempre avuto la passione per le cose vecchie, mi incantano gli oggetti arrugginiti, dismessi, credo che esprimano un concetto di povera bellezza, affascinante, magnetica quasi. In realtà ho sempre avuto grosse difficoltà a liberarmi dei pezzi rotti, fin da piccolo. Allora capitava che continuavo ad accumularli, conservarli da qualche parte. Erano troppo malandati per venderli e troppo belli per gettarli via».
E allora gli hai regalato un’altra vita.
«C’era questa scatola di latta, era di mia nonna, la guardavo e la trovavo bellissima. Allora ho iniziato a vederci qualcosa e ho iniziato ad assemblarla con altri pezzi. È nato il primo robot».
E con lui il successo internazionale.
«E chi se lo aspettava! Lanciai la piattaforma nel 2013, c’erano i primi venti robot che avevo creato, ognuno aveva un nome, un passato, un carattere. Chi desiderava adottarne uno doveva scrivermi e spiegarmi perché aveva scelto proprio quello. Allora io valutavo se potesse essere un bravo genitore e se lo era allora imballavo e spedivo».
Come hai vissuto l’onda della fama improvvisa?
«Mi ha travolto, tutti parlavano di me e dei miei robot. Arrivarono migliaia di lettere di adozione, richieste di interviste da parte di giornali nazionali, televisioni. Non ero preparato. Ho dovuto lasciare tutti gli altri lavori e dedicarmi solo ai miei robot».
Il 2019 è arrivata un’email da molto lontano, da Dubai, te l’aspettavi?
«È stato incredibile. Un giorno leggo questa email e penso subito a un messaggio spam, sai di quelli che ti arrivano ogni tanto sulla casella di posta e cestini subito? Invece, non era pubblicità, era un invito. Ero stato scelto come unico italiano per creare un’opera che sarebbe diventata parte integrante e permanente di una delle strade principali di Dubai, la a Jumeirah Road. Mi chiesero una creazione che esaltasse la connotazione territoriale di quella zona, così è nata la mia “Family Robots”».
E com’è questa famiglia un po’ calabrese un po’ araba?
«Intanto ho studiato la loro cultura. Si crede che Dubai sia una città senza storia, ma non è così. Hanno una lunga tradizione marina, sono pescatori, raccoglitori di conchiglie, usano moltissimo le latte per la conservazione degli alimenti, riciclano tutto quello possono. Ho pensato che anche noi in Calabria siamo così e allora ho voluto creare un legame tra la nonna araba e quella calabrese, così distanti ma in realtà così vicine».
Così l’anno scorso i tre robot hanno preso il volo, deve essere stato emozionante…
«Pensa che la mattina della spedizione non avevo ancora chiuso l’imballo perché mancava una testa, quella della “mamma”. Pensavo e ripensavo ma proprio non riuscivo a trovare niente che andasse bene. Ero molto preoccupato. Poi mia mamma ha preso un vecchio tegame e ho pensato che fosse perfetto. Chi glielo doveva dire a quella casseruola che sarebbe finita a Dubai!».
Ma il 2020 per te è stato un anno particolarmente difficile in un anno già difficile per tutti.
«Tre mesi fa ho scoperto di essermi ammalato. Cancro. All’inizio non volevo rendere pubblica la mia vicenda ma poi ho deciso che condividerla fosse la cosa più giusta. Credo che tutto accada per un motivo, e credo che se sia successo a me forse è un segno, forse devo fare qualcosa. Deve essere così o nulla avrebbe senso. Prima della malattia ero ambasciatore dell’Airc, l’associazione per la ricerca contro il cancro, adesso il mio impegno è doppio».
Ti senti cambiato?
«Sono stanco, le terapie non sono proprio una passeggiata. Ma io sono fortunato, sono un ragazzo giovane, in forma, e sono riuscito ad accorgermi in tempo di quello che mi stava accadendo e sono certo che vincerò questa battaglia e ne uscirò più forte. Eppure devo confessarti che la mia vita non si è così capovolta come credevo. Certo, qualcosa è cambiato, adesso ci sono i dottori, le medicine da prendere, gli effetti collaterali da smaltire, ma non sento sotto di me il terreno franare».
Quanto ti ha aiuta l’arte ad affrontare i momenti più difficili?
«Tanto, davvero tanto. Ogni giorno disegno, è come un diario creativo, mi aiuta a pensare e intanto riacquisto le forze. All’inizio, quando ho saputo della malattia, ho fatto il pensiero più umano: perché a me? Ma poi sai cosa mi sono detto: e perché doveva succedere a qualcun altro?».
Credi davvero che il dolore può essere utile?
«Mi è capitato in passato di visitare i reparti oncologici, anche quelli pediatrici, e oggi so di cosa ha davvero bisogno un malato, e so cosa fare per aiutarlo perché ci sono passato io stesso. Voglio poter aiutare gli altri nel modo in cui gli altri hanno bisogno di essere aiutati. Questo pensiero mi fa star bene perché così tutto acquista un senso e se c’è un senso allora niente è inutile, nemmeno il dolore».
Come hai affrontato questa corsa salita in piena emergenza sanitaria?
«È stata molto dura. Sono tornato in Calabria per le cure e ho passato una settimana in ospedale completamente da solo. Per fortuna c’era la mia fidanzata, al telefono, che non mi ha mollato nemmeno per un minuto. C’era l’assenza fisica dei miei cari ma non quella spirituale».
E i tuoi robot?
«Ne sono nati di nuovi ma ancora non mi hanno parlato. Hanno qualcosa di diverso dagli altri, raccontano storie di mare. Mi sento un po’ pescatore in questo periodo, fermo su una barchetta in mezzo alla tempesta, ma troverò la rotta, basta guardare in alto, verso il cielo, al momento giusto e remare, remare».