«Gli dissi “Diego! Diego! Una foto co’ er pupo!”. E Diego mi rispose “Subito, subito… Fai presto!”». El pibe alloggiava col Napoli dei miracoli all’Hilton, era la vigilia di Roma-Napoli. Franco D’Agostino conserva quella foto nel suo angolo dei ricordi, il suo garage su viale Accademie vibonesi, a Vibo Valentia: Maradona che culla il piccolo Alessio, di pochi mesi. I colori che non sbiadiscono, malgrado il tempo. Quello scatto si perde quasi in una parete di immagini e cornici, di bandiere e cimeli.

C’era una volta il calcio

Franco visse parte della sua vita nella Capitale, dove conobbe un professionista romano col quale iniziò un’intensa collaborazione che lo condusse a diventare il fotografo della Lazio. Così ebbe modo di osservare in grandangolo il calcio italiano, quando il suo campionato era il più bello ed ambito del mondo. Scatti a colori, ma anche in bianco e nero, come quello con Burgnich e Mazzola, con Suarez, con Tardelli. Li mostra, li accarezza con la nostalgia che appartiene solo ai ricordi più intensi. Ecco la foto con Rivera e poi quella con Gigi Riva. Con i miti dell’Inter: Altobelli, Oriali, Zenga, Bergomi e Beppe Baresi, Rumenigge. E l’avvocato Prisco. Ma anche della Juve: Cabrini, Platinì, Gentile, Boniek… Con Sivori e Altafini, con Charles e Liedholm. E poi Bruno Conti, Albertosi, Sormani, Rudy Voeller.

I migliori anni

I vent’anni più belli del calcio italiano, dagli anni ’70 ai ’90: a bordo campo, negli spogliatoi, nei ritiri e negli hotel. «Quelli sì che erano campioni, avevano un cuore, una semplicità ed un’umiltà che non si possono raccontare solo con le parole… Altro che quelli di oggi». La nostalgia è palpabile nei suoi occhi chiari che frugano sulle pareti, quasi timorosi di smarrire anche solo uno di quei frammenti di vita. Era un altro campionato, un’altra Italia, un altro mondo. Poi sarebbe tutto cambiato e di quel che fu, oggi resta solo un ricordo che stringe il cuore, in una società che ha perso gran parte dei suoi valori e la sua identità.

Testimone del tempo

Franco diventa così il testimone dei tempi che cambiano, di un passato che non ritornerà, dove niente è più uguale a prima. Ma qualcosa nella sua vita non è cambiata e deve resistere, almeno questa, alla dissoluzione: lo spirito del Natale, la Natività, il presepe. Nella sua, come nella nostra. «Ogni anno, così, è come rinascere». La tradizione, la fede, la spiritualità cristiana rappresentano quel valore luminoso ed immutabile, più forte di ogni decadenza. Il Natale, per il cacciatore di campioni, arriva e scaccia malinconia ed inquietudini. «Mio padre - spiega - era napoletano. E io faccio il presepe sin da quando ero ragazzino. E lo faccio così, ogni anno. Solo un anno non l’ho fatto, quando papà è morto».

La vera tradizione

Insomma, sangue napoletano, quello della più grande tradizione presepiale del mondo. Ed il presepe di Franco è davvero monumentale, un tripudio di luci e colori, nel quale tutto assume un profondo significato. Personaggi che esprimono un’umanità votata al sacrificio. C’è chi si assopisce mentre il tempo scorre, chi osservando il cielo cerca la cometa, ovvero una luce di speranza. Chi continua a lavorare. C’è la capanna, col bue e l’asinello. Giuseppe e Maria. Ed un giaciglio rosso di velluto rosso porpora, tra paglia e polvere. «Aspettiamo la notte di Natale, per il Bambinello. Per me non è Natale senza presepe».  Ogni anno sempre uguale, a casa di Franco. Ogni anno, sempre uguale, da duemila anni a questa parte. Tutto o quasi si dissolve, i campioni muoiono, la società cambia, ma «il Natale sarà sempre il Natale se ci sarà un presepe in casa».