L’alfabeto emotivo del dialetto calabrese, il progetto per diffondere il patrimonio linguistico

VIDEO | L’idea di un giovane italo-venuezuelano con l’intento di far conoscere le ricchezze linguistiche del nostro territorio attraverso dei video in una forma di comunicazione giovane e virale

di Sonia Miceli
28 gennaio 2020
12:13

Alfabetizzare tutti gli italiani (e non) con le parole del dialetto calabrese: è il progetto di Giulio Vita, giovane italo-venezuelano di origini calabresi (Amantea, in provincia di Cosenza) che ha ben pensato di dare vita all’ "Alfabeto emotivo del dialetto calabrese" per diffondere le ricchezze linguistiche della nostra regione attraverso dei video con una forma di comunicazione giovane e virale.

 


La finalità del progetto è quella della promozione turistica per gli appassionati della lingua e della Calabria, al fine di collegare il nostro territorio con una tipologia di pubblico che conosce poco il nostro territorio.

 

Giulio Vita - autore e direttore del festival cinematografico internazionale “La Guarimba” e del documentario “La mia Mantia” sugli artigiani di Amantea - ci ha spiegato nel dettaglio i particolari di un progetto carico di quello slancio ereditato dai due Paesi di provenienza: la determinazione e la tenacia del  “guarimbero” (rivoluzionario) venuezelano accompagnata dalla passione e dalla carica tipica del calabrese.

L’Alfabeto emotivo del dialetto calabrese

“Alfabeto Emotivo del Dialetto Calabrese”: Giulio mi spieghi come nasce il progetto e di cosa si tratta?

«L'Alfabeto Emotivo del Dialetto Calabrese è un progetto per far conoscere in tutta Italia e nel mondo la ricchezza del dialetto calabrese in una forma di comunicazione giovane e virale».

 

«Nel 2019, la Camera di Commercio di Cosenza ha pubblicato un bando e lo abbiamo vinto - ci spiega -. Questo ci ha dato la spinta per poter farlo. Purtroppo, senza fondi è molto difficile portare avanti tutte le idee di una associazione perché le professionalità vanno giustamente pagate. Ovviamente, tante cose le abbiamo fatte senza compenso perché le risorse sono sempre scarse».

 

Tu e Fortunato Valente, il regista che ti accompagna in questo progetto, parlate di  «una forma di comunicazione giovane e virale» per far conoscere il dialetto calabrese in tutta Italia. Fammi qualche esempio.

«È da quando avevo quindici anni che, ogni estate, vengo ad Amantea e mi faceva ridere che il mio amico bolognese - figlio di calabrese - non capisse cosa dicevano i ragazzi del paese mentre io riuscivo a capirli nonostante fossi cresciuto in Venezuela».

 

«Così abbiamo pensato che sarebbe stato bello fare delle “pillole” video che potessero spiegare la parola dialettale a tutti gli italiani. Sono video di 45 secondi che provano ad alfabetizzare lo spettatore».

 

Di quante emozioni è carico il dialetto calabrese? Secondo te qual è la caratteristica che lo differenzia dagli altri dialetti?

«Una delle cose che questo progetto non può coprire è la vastità e la diversità della lingua calabrese. Non solo ogni provincia ma anche ogni paese ha parole e suoni diversi, per cui è molto complicato. Però di sicuro è una lingua molto forte e grezza, come i calabresi, piena di passione e consonanti potenti».

 

«Di sicuro - tiene a precisare Giulio - ci sono similitudini con altri dialetti meridionali ma la principale differenza è la sua forza brutale. Non è dolce. Forse al nord della provincia di Cosenza, dove assomiglia un po’ al lucano e al sud di Reggio dove inizia a mostrare un po’ di mischia siciliana, ma in generale è una lingua bella forte».

 

Giulio, tu sei italo-venezuelano o meglio calabro-venezuelano, precisamente di Amantea: come hai vissuto durante l’infanzia il rapporto con il dialetto calabrese ?

«Gli italiani all’estero sono molto più attaccati alle tradizioni rispetto a quelli che crescono qui. È una questione di movimento: chi se ne va, vive nella sua bolla di ricordi. Io sono cresciuto con i miei genitori che mi parlano solo in italiano e i miei nonni e zii che parlavano solo calabrese. Ho capito tardi che erano lingue diverse perché per me, così come lo spagnolo, il calabrese e l’italiano erano luoghi sicuri e quotidiani».

 

«Forse da qui - puntualizza - viene il mio profondo rispetto e amore per questo che io considero una lingua, e mi dispiace assai la vergogna che vedo in tanti calabresi che nascondono la loro radice linguistica».

 

«Il mio amico e regista del progetto, Fortunato, che è di Vibo Valentia, non conosce alcune parole che dicono gli amanteani e viceversa, anche se ci sono punti in comune dove due calabresi possono comunicare».

 

Parliamo dell’identità del territorio calabrese: secondo te la Calabria ha costruito una connotazione territoriale che non sia solo legata alla mafia e alla corruzione?

«Certamente. Il problema è che per i giornali non calabresi fa più figo parlare di ‘ndrangheta e malaffare. In Calabria ci sono esperienze spettacolari che non potrebbero esistere se non fosse per il carattere combattivo e arrabbiato di questa terra. Esperienze che vanno dall’imprenditoria alla cultura».

 

«Penso all’estate scorsa, quando i cosentini hanno creato “Stutamu Salvini” come risposta all’arrivo dell’ex-Ministro dell’Interno. È stato un coordinamento tra social e passaparola effettivo e vincente. Non ne ha parlato nessuno sui grandi giornali. Con le Sardine, invece, si è straparlato come se è la prima volta che il popolo si sveglia. Insomma, i calabresi molte volte fanno il primo passo in molti campi. Il problema è che non si parla di noi a meno che non andiamo in una grande città del nord».

 

Il dialetto rientra in quel ricco patrimonio culturale calabrese che non sembra essere abbastanza valorizzato. Secondo te perché? Anche noi siamo responsabili di un mancato decollo della nostra terra?

«Io il calabrese lo considero una lingua, così come in Spagna il gallego, l’euskera, il catalano, il valenciano sono lingue ufficiali che coabitano senza nessun problema, sarebbe importante poter ufficializzare il nostro dialetto come quello che è: una lingua. Perché non ha sempre la stessa radice: è una pentola di arabo, spagnolo, francese».

 

«Abbiamo parole e suoni che non esistono in italiano e la cosa più sorprendente è che, anche senza un sistema grammaticale che si insegni nelle scuole, i bambini e i ragazzi parlano un calabrese perfetto tra di loro. Certo, i più puristi diranno che si sta perdendo perché muta. È normale. Succede con tutte le lingue vive: si trasformano e si adattano alla realtà. Ma i suoni sono tutti lì, immutati».

 

Beh, dopo averci parlato del progetto, ora tocca a te: dimmi qualche frase in dialetto calabrese con cui vorresti concludere questa intervista

«Mi piace un sacco l’espressione “illa miseria!”, che cambia pronuncia e costruzione dipendendo dal paese o la frazione. Sarebbe “mannaggia alla miseria”. Ma ad Amantea si usa come esclamazione, per moltissimi motivi».

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