1743, quando Casanova fuggì dalla Calabria: «Abitanti come animali»

Il celebre seduttore appena diciottenne fu ospite del vescovo di Martirano ma scappò dopo tre giorni dall’arrivo: «La gente di quel posto mi faceva vergognare di appartenere al genere umano». Parole positive solo per Cosenza

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di Alessandro Stella
4 dicembre 2019
11:54
Un ritratto di Giacomo Casanova
Un ritratto di Giacomo Casanova

«Durante il viaggio fissai i miei occhi sul famoso Mare Ausonium. Ero felice di trovarmi al centro della Magna Grecia, che il soggiorno di Pitagora aveva reso celebre ventiquattro secoli prima. Osservavo con meraviglia la terra famosa per la sua fertilità, nella quale, però, malgrado la prodigalità della natura, notavo solo miseria: mancavano tutte quelle belle cose superflue che rendono migliore la vita, e gli abitanti di quel posto mi facevano vergognare di appartenere al genere umano». Parole non proprio al miele quelle scritte nei confronti della Calabria da un ancora 18enne Giacomo Casanova, che nelle nelle sue Mémoires, tre secoli, fa restò fortemente colpito da quella terra (e non proprio positivamente).

 


Nel 1743 il celebre seduttore fu, infatti, ospite del vescovo di Martirano, nel Catanzarese, (la cui diocesi sarebbe poi stata soppressa), in buoni rapporti con la sua famiglia. Poco tempo prima Casanova era stato imprigionato nella sua Venezia per il carattere turbolento. L’affidamento al prelato poteva quindi essere inteso quasi come una sorta di esilio per “raddrizzarlo”. Ma durò pochissimo.

 

In Calabria, infatti, Casanova restò solo tre giorni: abituato a una vita tra merletti e profumi, si sentì inorridito dai suoi abitanti: «Il lavoro è aborrito, tutto si vende per prezzi vili, la gente si sente sollevata da un peso quando trova qualcuno che accetta in dono le varietà di frutti che possiede. Trovai che i romani non hanno poi tutti i torti di chiamarli bruti invece che Bruzi».

 

Un primo impatto fortemente negativo che trovò conferme nell’arrivo a Martirano: «Mi incontrai con il vescovo Bernardo de Bernardis, seduto ad una misera tavola, dove stava scrivendo. Si alzò per salutarmi, e invece di benedirmi, mi strinse tra le braccia. La casa era abbastanza grande, ma mal costruita e mal tenuta. Era così scarsamente ammobiliata che per farmi fare un brutto letto, nella camera accanto alla sua, dovette cedermi uno dei suoi durissimi materassi. Il pranzo era così povero che mi spaventò. Per il suo attaccamento alla regola mangiava di magro; l'olio comunque era pessimo. Tuttavia era un uomo molto intelligente, e soprattutto onesto. Quando gli chiesi se aveva dei buoni libri, una compagnia di gente letterata, qualche persona raffinata con la quale passare con piacere un paio d'ore, lo vidi sorridere. Mi confidò che in tutta la sua diocesi non c'era nessuno che potesse vantarsi di saper scrivere bene, e ancor di meno che avesse del gusto, una minima cultura letteraria; non c'era neanche un vero libraio, né un amatore che leggesse il giornale. Mi promise tuttavia che avremmo coltivato insieme le lettere quando gli fossero arrivati i libri che aveva ordinato a Napoli. Ma come potevo pensare di stabilirmi in quel posto, nel quale non c'era una buona biblioteca, un circolo, una corrispondenza letteraria, avendo solo diciotto anni?».

 

Le premesse per il soggiorno in terra calabra non furono dunque lusinghiere per il giovane donnaiolo, folgorato dall’incontro che si stava per concretizzare: «Il giorno dopo andai alla sua messa, e vidi tutto il clero, le donne e gli uomini che riempivano la cattedrale. Fu proprio in quel momento che presi la mia decisione, ritenendomi fortunato di poterla prendere. Avevo visto solo degli animali che mi parvero scandalizzati dal mio aspetto. E poi com'erano brutte le donne! Dissi chiaramente al vescovo che non avevo la vocazione di morire martire in pochi mesi in quella città».

 

Prima di lasciare definitivamente la Calabria fece tappa a Cosenza: «L'arcivescovo del luogo, uomo ricco e intelligente, volle ospitarmi da lui. A tavola feci l'elogio del vescovo di Martorano, ma parlai spietatamente male della sua diocesi, e poi di tutta la Calabria, in modo così deciso che l'arcivescovo ne rise con tutta la compagnia, in cui due donne, sue parenti, facevano gli onori di casa. Fu la più giovane che mi disse che la satira che avevo fatto del suo paese era troppo severa. Mi dichiarò guerra: ma io la calmai dicendole che la Calabria sarebbe stato un paese adorabile se solo un quarto degli abitanti le fosse somigliato. L'arcivescovo, forse per dimostrarmi il contrario di quello che avevo detto, il giorno dopo diede una grande cena. Cosenza è una città in cui gli uomini ricchi possono divertirsi, poiché c'é una ricca nobiltà, delle belle donne, e delle persone colte. Partii il terzo giorno, con una lettera dell'arcivescovo per il celebre Genovesi. Viaggiai con cinque persone, che mi parvero corsari o ladri di professione. Perciò evitai per tutto il viaggio di far capire che avevo una borsa ben fornita. Dormii con i pantaloni, non soltanto per paura che mi rubassero i soldi, ma anche per una precauzione che credevo necessaria, in un paese in cui il gusto delle cose strane è diffuso. Arrivai a Napoli il 16 settembre (1743)».

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