VIDEO | Il Centro abusi sessuali di Reggio Calabria, guidato dalla dottoressa Squillace, ha preso in carico tantissimi casi di violenze e soprusi che, a dispetto di quello che si può pensare, non sempre maturano in contesti familiari degradati. Spesso, infatti, i “mostri” si nascondo all’interno di famiglie per bene. Ma anche alcune norme devono essere necessariamente riviste
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Chi ha varcato il cancello del fabbricato che ospita degli uffici periferici dell'Asp di Reggio Calabria, l’ha fatto perché aveva bisogno, urgente bisogno, di essere aiutato. Qui, in questo ufficio decentrato dell’Asp reggina - per fortuna - chi era in difficoltà, chi era stato abusato, picchiato, violentato nel fisico e nell’anima, ha trovato ciò che cercava: una mano amica.
Ha trovato la dottoressa Maria Squillace, direttrice del Centro abusi sessuali, che da oltre 30 anni ha cura di trovare un riparo e una cura a chi è finito nelle grinfie di un mostro. Al secondo piano dello stabile di via Placido Geraci ci sono salite donne, adolescenti e bambini anche in tenerissima età. I casi trattati sono stati tantissimi e, a dispetto di quello che si può pensare, le violenze, i soprusi, gli abusi non sempre maturano in contesti familiari degradati. Spesso, infatti, i “mostri” si nascondo all’interno di famiglie per bene, fatte da professionisti stimati che, però, hanno un doppio volto, una doppia vita.
«Fino ad oggi - ci dice la dottoressa Squillace - non ho mai fatto una statistica dei casi che ho dovuto affrontare. Ma sono tanti, davvero tanti. Solo dall’inizio dell’anno, ad esempio, stiamo affrontato tre casi salvavita, tre casi di donne che possiamo ritenere vittime di femminicidio».
L'inizio 30 anni fa
Tutto è iniziato molti anni addietro a Terreti, quartiere reggino, dove c’era uno sportello dell’Azienda sanitaria. In poco tempo, grazie all’impegno personale di Maria Squillace, il centro è cresciuto, si è spostato a Reggio Calabria ed ha aperto le sue porte a chi ne ha bisogno.
Il primo caso, quello che ha segnato la vicenda umana e professionale di Maria Squillace, vedeva coinvolta una ragazzina alta e magra. Si pensava fosse affetta da anoressia. Con il tempo, però, è venuta fuori la realtà dei fatti, l’anoressia non era il primo problema. La ragazza aveva subito violenze dentro casa, dal padre. Si trattava di una storia di incesto in una famiglia benestante reggina. I disegni raccolti nel diario di quella ragazzina, che oggi è una donna e una manager realizzata, hanno aperto le porte dell’inferno familiare. Questa storia di abusi è stata una storia di rinascita.«Oggi quella ragazzina si è ritrovata - racconta la dottoressa - si è liberata dagli incubi, ha cancellato l’immagine del mostro ed è ritornata a vivere».
Le norme da rivedere
Da allora tanto è cambiato. Ma qualche norma deve ancora essere rivista e chi ha il primo contatto con una vittima di violenza non deve sottovalutare i segnali, anche quelli meno visibili, che vengono lanciati. C’è bisogno di rendere effettive le provvidenze previste nel cosiddetto “codice rosso”. I sanitari, i professionisti, gli uomini delle forze dell’ordine che vengono in contatto con storie di violenza devono essere formati e resi capaci di capire cosa si può nascondere dietro un livido o un comportamento oppositivo. Bisogna avere il coraggio di intervenire e denunciare.
In questi casi non si può perdere tempo ma, soprattutto, si deve offrire una nuova occasione a chi denuncia. C’è la necessità di rendere operativi i centri di accoglienza e sostegno delle donne che hanno subito violenza. E’ necessario abolire la possibilità di accedere al patteggiamento per chi è ritenuto responsabile di violenze a carico di donne o bambini. E’ necessario sostenere, anche economicamente, coloro che sono stati abusati e hanno scelto di denunciare. E’ opportuno non abbandonare i minori orfani di femminicidio. «E’ importante - conclude Maria Squillace - fare rete per offrire il massimo sostegno alle vittime di violenza».