La famiglia Lanzino affida a una lettera il ricordo della figlia assassinata e il fallimentare cammino della Giustizia italiana
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«L’istinto più forte ci suggerisce di tacere, quasi una sorta di autodifesa, ormai giunti alla nostra non più giovane età. Il dovere invece ci dice di parlare, sempre guidati, ovviamente, dalla consueta equilibrata eticità che ha accompagnato la nostra intensa presenza sul territorio in questo trentennio che oggi ci sembra incredibilmente lungo, ma anche incredibilmente veloce».Parole forti, che risuonano nel ricordo di una figlia strappata alla vita nel fiore degli anni, quelle che i genitori di Roberta Lanzino hanno voluto diffondere a distanza di trent’anni da una scomparsa che non ha mai avuto spiegazioni.
Nel 1988 Roberta ha 19 anni, è diretta al mare in motorino, quando all’improvviso, su una stradina secondaria di Falconara Albanese, viene aggredita, seviziata, violentata e uccisa da qualcuno.
Muore per un taglio alla gola, le spalline conficcate nella bocca per attutire le urla, almeno cinquanta ferite e una caviglia slogata nel tentativo di sfuggire alle grinfie degli aguzzini.
Sul cadavere anche la firma di questi ultimi: il liquido seminale che, però, nel processo, non avrà molta rilevanza. L’accusato, Roberto Sansone, pastore locale indagato per altri delitti, sarà infatti assolto perché «il fatto non sussiste».
I genitori di Roberta si chiedono cosa sia accaduto in questi trent’anni, si danno delle risposte, ma non quelle cercate da quel terribile giorno.
«Abbiamo serrato nel cuore e nella nostra intimità – spiegano - la distruzione delle nostre vite; abbiamo offerto al territorio il sacrificio di Roberta, vittima innocente di maschi vili oltre che bruti, facendo della lotta contro la violenza delle donne la nostra lungimirante vision e la nostra quotidiana mission; abbiamo chiesto serietà e professionalità alla Giustizia degli uomini, nei Tribunali; noi abbiamo tenuto fede a questo cammino, con coraggio, perseveranza, fiducia, impegno, sacrificio, bypassando con sacrificio gli inevitabili momenti di ripiegamento e di stanchezza».
«Noi dunque ci siamo stati – proseguono - noi concretamente ancora ci siamo! E il cammino della giustizia, invece, come è stato?» si chiedono.
«Quel 26 luglio Roberta andava “felice coi riccioli al vento verso la sua estate di gioia”. Aggredita e violentata certamente dal branco (due – tre? Chissà!), non ha avuto giustizia. Tutti assolti anche nel secondo sonnolento processo. Gli stessi tribunali riconoscono errori e improfessionalità che hanno impedito di “aprire un varco” in quel muro di terrore visibilissimo e tangibile nelle testimonianze di quella difficile e “pericolosa” strada di Falconara Albanese».
Il dolore della coppia si racchiude nell’ultimo quesito, il più struggente e amaro, quello in cui si materializza la consapevolezza che la giustizia terrena abbia fallito: «Ma noi ancora ci chiediamo con Kafka: “Ci sarà un giudice a Berlino” per Roberta?».