C’è anche un po’ di Calabria nella vicenda della fuga di notizie dal Tribunale di Roma che in queste ore si sta allargando a nuovi indagati. La principale accusata dell’indagine infatti, Camilla Marianera, la ventisettenne romana arrestata dalla Procura della Capitale con l’accusa di essere la “talpa” in grado di fare uscire notizie riservatissime dagli uffici giudiziari di piazzale Clodio, era iscritta dall’ottobre del 2019, al Foro di Paola come praticante di uno studio legale romano. E sempre in Calabria aveva provato a diventare avvocato a tutti gli effetti, sostenendo l’esame di abilitazione alla professione davanti ai giudici della Corte d’Appello di Catanzaro, senza però conseguire il titolo abilitativo.

Ed è proprio durante il suo periodo di praticantato presso lo studio romano dell’avvocato Rocco Bruno Condoleo – che ha immediatamente preso le distanze dall’indagata specificando che non sarà il suo staff a curarne la difesa – che la donna, ipotizzano i magistrati della Capitale, coadiuvata dal compagno Jacopo De Vivo anche lui finito agli arresti, avrebbe allacciato i contatti con un terzo individuo, Luca Giampà. Pregiudicato per fatti di droga e ritenuto vicino al clan dei Fasciani per aver spostato la figlia di Giuseppe, considerato uno dei capi del clan degli zingari, anche Luca Giampà ha legami diretti con la Calabria per essere originario di Filadelfia, nel vibonese.

Modalità alternativa

È proprio Giampà, sostengono gli inquirenti ad avvicinare la coppia per conoscere lo stato delle indagini nei suoi confronti. Un abboccamento che arriva dopo che lo stesso pregiudicato – che finirà ai domiciliari pochi giorni dopo per una faccenda legata ad un traffico di cocaina – aveva fatto “bonificare” la propria auto scoprendo un gps che era stato installato dalla polizia giudiziaria. Da qui la serie di incontri, monitorati dai Carabinieri, in cui si sarebbe perfezionato l’imbroglio. La praticante avvocato Marianera avrebbe contattato la sua fonte all’interno degli uffici della Procura di Roma per verificare l’esistenza di indagini e lo stato di avanzamento delle stesse, Giampà avrebbe pagato 300 euro a controllo (per se e per una serie di suoi presunti accoliti). Un accordo che sarebbe stato costruito grazie all’aiuto di uno o più  funzionari non ancora individuati – di oggi la notizia di nuove perquisizioni disposte nei confronti di alcuni dipendenti dell’ufficio intercettazioni di piazzale Clodio –  e crollato solo per l’intervento della magistratura che si era accorta di quella crepa pericolosissima spuntata nei suoi stessi uffici amministrativi.