I segreti dei vulcani, li sanno i vecchi e i marinai. Ed erano stati vecchi ed i marinai tropeani, a raccontare quello che sulla Rupe sanno tutti: che Iddu, non è siciliano, è calabrese, «è robba nostra», tanto che qui lo chiamiamo per nome e in Sicilia è “quello lì”. I segreti dei vulcani li sanno i vecchi, i marinai, e i poeti. Ed era stato un vecchio poeta marinaio, gli occhi liquidi sul tramonto, a ricordare di suo nonno bambino, che Stromboli lampava e tronava, fumava e scoppiava, e gli abitanti scappavano a remi a Tropea, prima spiaggia sicura, la rotta percorsa col cuore in gola, la stessa che conoscevano bene, che sbarcavano alla Marina una volta al mese, pomice all’andata e cipolle al ritorno: ed ecco perché Tropea era il primo approdo, anche con Lipari equidistante. I segreti dei vulcani li sanno solo i vecchi i marinai e i bambini, e lo vedi dai loro disegni, con quelle linee pure al tramonto, una linea retta, un cerchio ed un triangolo, e quel blu e quel rosso tanto facili da riprodurre, ed il fuoco, le fiamme che escono dal cratere… loro lo sanno, che Stromboli guarda Tropea e Tropea guarda a Stromboli.


«L’apocalisse, l’apocalisse…»

«Non abbiamo preso neanche la biancheria», ripeteva in trance la signora strappata dalla doccia, gli amici dalla spiaggia, i vip dalla piscina, i pellegrini dalle stradine, distratti dalle loro piccole cose da un vulcano che si era svegliato all’improvviso, sputandoli nudi a Tropea, facendoli saltare sulle motonavi dirette al continente così, senza biancheria… «L’apocalisse, l’apocalisse», ripeteva alla Marina il ragazzo siciliano, la cenere del vulcano negli occhi, la paura e nelle ginocchia e nella voce, la maglia con Stromboli che erutta un cuore rosso fuoco sul petto, lei sì più beffarda che profetica, e la Sicilia lontana, lontanissima…

 

«Mai visto niente del genere...»

E scuoteva la testa il comandante del traghetto per le Eolie: «mai visto niente del genere», lui che da 15 anni mastica le stesse 60 miglia marine, 30 all’andata e 30 al ritorno, e Stromboli ce l’ha tatuato in fronte, migliaia di volte lo ha visto di giorno, di notte, di sera, incazzato, placido, silenzioso, e se prima lo guardava come il fornaio la pagnotta, l’amore commerciale per la fonte di guadagno, oggi la paura ha aperto al rispetto, la compunzione è quella di chi è al cospetto di un superiore, il rispetto è quello del servo per il padrone che alza la voce. E a comandare, è quel vulcano che si è scrollato di dosso abitanti e turisti, che ha fatto sentire la voce terribile della natura, che ha mostrato quella bellezza tremenda che avrebbe fatto impazzire un protoromantico tedesco, e a noi leva il fiato, anche se c’è il morto, e ci dispiace davvero, ma è la Natura, e se gli indigeni adoravano i vulcani ci sarà un motivo…


«Che ci faccio qui?»

Il senso del terribile era nel vuoto pneumatico negli occhi degli svedesi, quelli scappati via tra cenere e fumo e boato appena iniziata l’escursione verso la bocca del cratere, abbandonando zaini, passaporti, oggetti personali sul terreno infernale. Marziani, con quella fisicità nordica inadatta a questo sole africano, a questo vulcano attivo, a questo mare piratesco che non sai se e quanto reggerà nella sua calma piatta, e devono averlo pensato mille e mille volte “ma che ci faccio qui”, ma non alla Chatwin, bensì alla Trip Advisor: che c’è mancato un soffio che la raccontassero diversamente, o non la raccontassero affatto, perché «erano passate da poco le quattro, e ci eravamo appena messi in cammino, avevamo ritardato un po’ la partenza, e poi il boato, e sentivo la cenere e i lapilli che mi cadevano in testa», dirà il ragazzo in quell’inglese monocorde, la compagna zitta e impietrita, distante anni luce dal qui ed ora, che quanto sono lontani i fiordi e le renne lo sa solo iddio, ed il prossimo anno tutti a Formentera.

 

«Però ho lasciato tutte le mie cose…»

Noi abbiamo sentito vicina la signora bionda, siciliana, una sigaretta dopo l’altra, ciabattine e camiciola, borsa del mare a tracolla. Lei, spaventata, sì, ma non spaesata, la voce che tremava di adrenalina e delusione, quasi sentisse freddo in un tramonto che diventava crepuscolo. "Sono siciliana, come ha potuto farmi questo", pensava, mentre diceva «non ci tornerò mai più!», ed il tono è quello che si riserva all’uomo che ha tradito, ma come si fa a non amarlo: ed infatti è solo un attimo, torna indietro, e mi fa «no, aspetta, non lo volevo dire, non lo scrivere che magari chi mi sente si spaventa, e loro poverini vivono di turismo». La guardo, e lo sappiamo tutte e due che è una bugia, che non è per i portafogli degli stromboliani che si vorrebbe rimangiare le parole, è che si è disarmati di fronte alla bellezza, e poco si può di fronte al richiamo ancestrale che Stromboli esercita su di lei come su di noi, sui i nati sotto lo stesso sole, quello che cade dentro la bocca del vulcano a ferragosto. E la signora ci pensa un po', e tremante di freddo e coi nervi a pezzi, abbassa la voce ed è già un concilio: «Che poi devo tornare per forza - quasi a giustificazione di se stessa - perché ho lasciato tutte le mie cose…». Tranquilla, signora. Lo sappiamo. La capiamo. È così anche per noi. Perché siamo tutti, tutti perdutamente innamorati di lui. Gli perdoniamo tutto. Tanto che la paura diventa attrazione. Il pericolo fascinazione. E la fascinazione, diventa magarìa.

 

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