Nel 1979 il capoclan Franco Perna sopravvisse per il rotto della cuffia a un attentato: da allora in ambienti criminali è paragonato a una lucertola a due code, rettile portafortuna per antonomasia
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Se ne stanno lì, appostati in una traversa di via degli Stadi, proprio davanti alla Centrale del latte. Sono in due, in sella a una motocicletta, e aspettano il loro uomo. Lo fanno da giorni. «Passerà», ripetono a sé stessi, «Prima o poi passerà». È il 1979 e Franco Perna trascorre la sua latitanza a Castrolibero. Latitanza si fa per dire, dato che si nasconde a casa sua, là dove neanche le forze dell’ordine osano mettere piede.
Il boss si concede il lusso di andarsene in giro per Cosenza e via degli Stadi è per lui una tappa forzata. «Passerà, passerà» rimuginano Umile Arturi e Antonio Cavallo. Il primo è un fedelissimo di Franco Pino, l’altro è il delfino di Gildo Perri. Entrambi sono nemici giurati di Perna. Lo aspettano per fargli una sorpresa, una brutta sorpresa. Cavallo stringe tra le mani un mitra. Perché quella non è una rimpatriata, ma un agguato di mafia.
Verso mezzogiorno, il bersaglio passa a bordo di Renault Alpine. Ha il finestrino semiabbassato e molto traffico davanti a sé. La sua marcia si arresta davanti a un deposito di gomme. La Renault è incolonnata, quindi è in trappola. I sicari avanzano sulla loro Honda 750 rubata, e a quel punto ucciderlo sembra solo una formalità.
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«Cavallo prende il mitra e glielo mette in bocca, proprio in bocca, gli appoggia la canna proprio all’altezza della bocca». Franco Pino ne parla subito dopo il suo pentimento. Sono passati sedici anni da quel giorno, ma lui non riesce ancora a nascondere lo stupore. «Cavallo preme e non parte il colpo. Non parte il colpo!».
Il destino vuole che il proiettile si metta di sbieco tra il caricatore e la camera di scoppio. Non si incanala come normalità vuole. «Quando si mette il caricatore – spiega ancora Pino ai magistrati – oltre a ficcarlo con le mani, si deve dare un colpettino sotto e deve fare uno scatto. Se non fa “Tic” non entra. Allora, evidentemente a Cavallo questo “Tic”, non so come, ma gli è sfuggito». Questione di mezzo millimetro, insomma. Che per il bersaglio designato vale una vita.
«Perna ha avuto un attimo di sbandamento, però poi si è liberata un pochettino la strada, lui si è ripreso, ha accelerato con la Renault ed è scappato via. Pure Cavallo e Arturi, dopo il fallimento, hanno avuto un po’ di sbandamento, ma poi hanno invertito la marcia e se ne sono andati». L’episodio, secondo l’ex boss, diventerà poi proverbiale nell’ambiente della malavita cosentina. Sia nel suo clan, che in quello rivale, prima di andare a eseguire un’azione di fuoco, la raccomandazione sarà sempre la stessa: «Occhio a non fare come Cavallo».
Da quel momento in poi, inoltre, circolerà un detto anche sul miracolato alla guida della Renault: che abbia la coda. Anzi, che ne abbia due. «Come le lucertole che hanno la doppia coda, quelle sono il massimo della fortuna. Ecco, a Perna gli avevano tolto l’ingiuria, gli dicevano: “Tu non è che hai la coda, tu hai la doppia coda!”. Quando poi negli anni della pace, sono entrato in confidenza con lui, ne abbiamo parlato anche scherzosamente».