Cadono pure nel secondo grado di giudizio le accuse di voto di scambio, corruzione e concorso esterno confezionate a carico dell'ex leader socialista. Con lui sul banco degli imputati c'erano anche Umberto Bernaudo, Pietro Ruffolo e Giuseppe Gagliardi
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Cadono anche in Appello le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa, voto di scambio e corruzione confezionate a carico di Sandro Principe, Umberto Bernaudo e Pietro Ruffolo. All’assoluzione nel primo grado di giudizio, decretata a maggio del 2022, si aggiunge ora la sentenza dello stesso tenore pronunciata dai giudici catanzaresi. Il risultato è che il “Sistema Rende”, almeno per come lo aveva congegnato la Procura antimafia, non esiste.
Il tema del processo, infatti, era quello delle presunte collusioni e degli inquinamenti verificatisi nella città d’oltre Campagnano, tra il 1999 e il 2011, con un gruppo di politici accusati di aver ottenuto, in quel periodo, successi elettorali dovuti all’appoggio sistematico della malavita, in particolare del clan Lanzino. Un sospetto che oltre all’ex sottosegretario e consigliere regionale, aveva colpito alcuni amministratori a lui vicini: l’ex sindaco Umberto Bernaudo, il già consigliere provinciale Pietro Ruffolo e, in posizione più defilata, l’assessore Giuseppe Gagliardi.
Per loro, la Procura generale ha rispolverato le richieste di condanna già respinte dal Tribunale di Cosenza: da due a nove anni di carcere, con la pena più alta invocata, ovviamente, per Principe, leader socialista fin dai tempi della Prima repubblica, un nome, il suo, legato a doppio filo allo sviluppo urbanistico ed economico della cittadina contigua a Cosenza. Anche in questo caso, però, la Corte d’appello ha risposto picche. Le motivazioni saranno depositate tra novanta giorni, ma è molto probabile che siano in linea con quelle licenziate due anni fa dai giudici cosentini.
In quel caso, infatti, il Tribunale aveva ritenuto infondato il teorema d’accusa perché a fronte di un sostegno elettorale così duraturo garantito dalla ‘ndrangheta a Principe e ai suoi uomini, non v’era traccia della contropartita che quest’ultimi, a rigor di logica, avrebbero dovuto assicurare ai loro grandi e ingombranti elettori. Nel mirino era finita qualche assunzione borderline nella cooperativa comunale, un piccolo bar dato in concessione ad Adolfo D’Ambrosio, gerarca rendese della cosca, e nulla più. Molto poco, dunque, rispetto alla massima che faceva da copertina all’inchiesta: «A Rende non si muove foglia che Principe non voglia». Con ogni probabilità, la sentenza pronunciata oggi vale da pietra tombale per la vicenda giudiziaria. Principe era difeso dagli avvocati Franco Sammarco, Anna Spada e Paolo Sammarco; Bernaudo dall’avvocato Francesco Calabrò; Ruffolo dagli avvocati Franz Caruso e Francesco Tenuta e Gagliardi dall’avvocato Marco Amantea.