Sono gli stessi ragazzi, arrestati nei giorni scorsi dalla Polizia in quanto ritenuti responsabili di aver violentato in gruppo una loro coetanea, ad autodefinirsi “branco”. Hanno persino cambiato il nome di un gruppo whatsapp da “Il pinguino teso “ a “Il branco” non provando alcun tipo di rimorso per quanto successo quella sera e soprattutto assumendo un senso di impunità che sconfina in uno scenario desolante e disarmante. Emergono particolari inquietanti infatti, dalle 127 pagine dell'ordinanza con cui il gip reggino ha ordinato l’arresto di C.D., classe 1999, S.F, classe 1999 e G.C., classe 1998. Altri tre giovani, anche loro ventenni, invece sono accusati di favoreggiamento poiché avrebbero mentito durante gli interrogatori per impedire agli investigatori di far luce sul caso.

 

Il fatto risale alla notte del 11 agosto, la notte di San Lorenzo dove in tutta Italia i giovani si riuniscono per vedere le stelle cadenti. Una ricorrenza che nella provincia reggina viene festeggiata all’interno dei tanti lidi, ubicati anche nel versante del basso Jonio, dove vengono organizzate delle serate con musica. Ma quella sera oltre alla musica, alla struttura balneare divenuta - stando all’inchiesta “Perseidi”- “teatro” di questa grave violenza, scorreva tantissimo alcool e la giovane vittima aveva bevuto tanto. A notte fonda, lì sulla spiaggia, il “branco” avrebbe abusato a turno di lei e anche se in manette sono finiti in tre, gli inquirenti paventano che siano stati addirittura in cinque a rendersi responsabili dello stupro di gruppo.  La giovane verrà ritrovata, da alcuni passanti, in condizioni critiche e subito dopo l’intervento delle forze dell’ordine verrà accompagnata in ospedale. Il giorno dopo, oltre ai lividi sulle braccia, gli esami specifici effettuati dai medici  confermeranno che è stata vittima di una terribile violenza sessuale.

Il tatuaggio del branco

La ragazza non ricorda molto di quei momenti. Ma un dettaglio ce l’ha impresso bene in mente. Il giorno dopo dirà ad una amica, e alla famiglia, che dopo aver implorato un «basta» qualcuno le «tappato la bocca con la mano» per impedirle di chiedere aiuto. Tra di loro, però il gruppo si aiuterà molto due degli arrestati, ossia D.C. E S.F, insieme ad un altro ragazzo estraneo all’inchiesta odierna, si sarebbero tatuati la frase «ai miei amici esauriti e alle notti felici di vizi proibiti». Parole estrapolate dalla canzone “Gente che spera” degli Articolo 31 in cui si far riferimento «alla necessità per un gruppo di amici di restare uniti - scrive il giudice - rifiutando la divise delle forze dell’ordine». Ma alle forze dell’ordine sarà l’amica del cuore della vittima a riferire tutto e soprattutto a fare nome e cognomi di chi ha presumibilmente compiuto lo strupro. Non lo farà subito, ma poi si scoprirà che è stata minacciata da uno degli arrestati, D.C indagato anche per questo reato, e alla fine dirà tutta la verità alla Polizia.

Il racconto della violenza sessuale di gruppo

«La mia amica è stata vittima di abusi ad opera di più ragazzi che facevano parte della comitiva del ragazzo che all’epoca frequentavo ossia D.C»: queste le parole messe a verbale della giovane durante il secondo interrogatorio con gli agenti della Squadra mobile della questura reggina. A loro spiegherà cosa i suoi occhi hanno visto. L’assenza del gruppo, dal tavolo del locale, l’ha fatta insospettire e una volta giunta in spieggia ha visto una scena terribile. La sua amica, «inerme in uno stato di quasi assuefazione», che veniva stuprata.  «Ho avuto modo di vedere, la prima volta S.F. seduto accanto ad  Omissis che la baciava e la palpeggiava. In preda al panico, alla vista di tale scena, sono corsa dentro perché ero intenzionata a fermare tutto ciò(…) solo dopo qualche minuto ho avuto il coraggio e ho trovato la forza di raccontare a D.C. quanto avevo visto e contestualmente pregandolo di intervenire subito affinché lo facesse smettere». Ma il ragazzo non avrebbe dato ascolto alla sua fidanzatina.  Ritorna in spiaggia e lì ha visto «che insieme ad Omissis non c’era più S.F., bensì G.C. che stava consumando un rapporto sessuale con la mia amica». La giovane tenta di sottrarre la ragazza dalle loro grinfie, ma non ci riuscirà. Qualcuno dirà “basta” e la faranno allontanare anzi D.C. le dirà che «non era un bello spettacolo a cui assistere». Tornerà dentro scioccata e confusa, pensando di poter trovare aiuto, e dopo 10-15 minuti verrà avvisata che stavano intervenendo le forze dell’ordine. Ma in quei pochi minuti, dalla ricostruzione effettuata dal pm Paolo Petrolo, la violenza sessuale sarebbe continuata. Anche il suo fidanzatino, D.C,  avrebbe abusato dell’amica e infatti gli inquirenti troveranno il suo dna.

 

Le minacce anche sui social

Gli inquirenti reggini lo scrivono chiaramente: «D.C. assumeva una posizione di leader all’interno del branco e fungeva da trait d’union tra i ragazzi coinvolti nella vicenda». Decine di messaggi, tutti intercettati, e conversazioni varie, documenteranno le fibrillazioni all’interno del gruppo per l’evolversi dell’inchiesta. Mai nessuno tenterà di fare un passo indietro, magari assumendosi le proprie responsabilità. La loro unica preoccupazione era farla “franca”. Anche un semplice dettaglio, ossia quello del cambio del nome del gruppo su Whatsapp ne “il branco” «descrive perfettamente- chiosa il gip- la personalità dei ragazzi, i quali con atteggiamento spavaldo passano all’interno dell’area verde (sita in una zona periferica di Reggio ndr), luogo in cui sono soliti consumare sostanza stupefacente, cannabis o cocaina, raccontare episodi relativi a personaggi di spicco della locale criminalità organizzata e pianificare eventi delittuosi da compiere come ritorsione ad un pregresso litigio intercorso per futili motivi con qualche loro coetaneo». La sera del presunto stupro tutti insieme, come se nulla fosse successo, una volta rientrati a Reggio andranno in un bar per fare colazione. Lì cercheranno di capire se la vittima ha riferito qualcosa e, una volta appreso che ancora non aveva parlato con le forze dell’ordine, «tireranno un sospiro di sollievo». D.C allora avrebbe affermato queste parole: «se esce fuori qualcosa di quello che è successo stanotte saremo costretti a vedercela a modo nostro». Parole che hanno scosso profondamente l’amica della vittima la quale ha iniziato a temere per sé e per i suoi familiari ed è per questo motivo che nel primo interrogatorio era reticente e aveva dichiarato il falso. Il giovane poi, le avrebbe intimato di «comunicare tempestivamente qualsiasi novità sull’argomento» e addirittura di non rimproverarla per aver bevuto tanto quella sera poiché così «avrebbe continuato i rapporti al fine di sapere tempestivamente novità sulla vicenda». Ma la ragazzina non cederà alle loro pressioni e dirà tutto agli investigatori. Questa ragazza andrà a studiare fuori e, anche se trascorreranno alcuni mesi dal fatto, continuerà ad avere paura anche perché sapeva che il gruppo fosse venuto a conoscenza delle dichiarazioni rese alla polizia. «Era certa - è scritto nelle carte dell’inchiesta- che i componenti del branco volessero intimorirla in quanto, attraverso alcune pubblicazioni su Istagram», le rivolgevano alcune frasi come “infame, cosa lorda, ve la siete cantata”  «con chiari riferimenti alla sua persona».

Indagato il padre poliziotto di uno dei presunti stupratori

Oltre ai tre ragazzi accusati dello stupro di gruppo agli altri tre indagati per favoreggiamento, è indagato nell’inchiesta anche A.R.C., padre di D.C.,  poliziotto in servizio a Reggio Calabria. Stando al capo di imputazione l’uomo è ritenuto responsabile di favoreggiamento in quanto «aiutava S.F. e. G.C, coindagati insieme al figlio, ad eludere le investigazioni. Stando alla ricostruzione dell’accusa avrebbe effettuato riunioni con gli altri indagati nei momenti cruciali delle investigazioni, immediatamente dopo l’escussione di qualcuno, della notifica di inviti a comparire alla polizia giudiziaria o l’effettuazione di accertamenti tecnici irrepetibili». Il poliziotto avrebbe «cercato di acquisire indebitamente informazioni sullo stato del procedimento dei militari operanti», così come riportato in una relazione di servizio del 24 gennaio scorso, e si sarebbe incontrato «più volte con gli altri indagati» anche alla sede del suo ufficio dove lavorava, «per fare il punto della situazione». Il figlio poi, intercettato, vorrà sapere da S.F.  le generalità della padre della ragazza presumibilmente abusata poiché il padre avrebbe mandato qualcuno per far rimettere la querela. Ecco l’intercettazione: D.C: «ha detto mio padre di dirgli il nome e il cognome del padre di Omissis che manda a qualcuno lui per cancellare la denuncia».

 

Nel pomeriggio del 16 gennaio scorso sempre il ragazzo intercettato dirà «devo andare con mio padre là, devo fargli vedere dove abita sta bestia”..quella, vediamo se riusciamo a fare qualcosa». Al momento per questo presunto sopralluogo non ci sono riscontri in atti, però il gruppo più volte ha manifestato verbalmente l’ira contro la giovane vittima e i suoi familiari.  D.C: «entro..siamo in dieci, otto si stanno fuori, due entrano…gli taglio tutte le dita, con un coltello». Un altro soggetto, ancora non indentificato dirà espressamente «se questa cosa va male quella ragazza non avrà più pace». Ma la pace già gliela “avevano” tolta. Anche alcuni degli altri genitori dei ragazzi non saranno di alcun aiuto alle forze dell’ordine. C’è chi chiedeva se la vittima era ubriaca e quanto lo era, se era vergine, e la mamma di S.F. persino chiederà al figlio, il perché si fosse avvicinato quella sera all’autoambulanza. «Ma quando ha fatto i rapporti con te era ubriaca?», domanda la donna. Il figlio risponde «ubriaca come era poi alla fine, no sicuramente». Madre: «ma tu perché ti sei avvicinato all’autoambulanza?». S.F.:«Io non mi sono avvicinato all’autoambulanza, era là l’autoambulanza».

La richiesta di “aiuto” alla cosca Rosmini?

Il “branco” però continuerà ad alzare sempre di più il livello di omertà e, in modo spasmodico, a comprendere come eludere le indagini. Tenteranno di prendere informazioni e persino di avvicinare la famiglia della vittima per far ritirare la denuncia. «Verranno acquisti elementi ai rapporti- scrive il gip- tra gli indagati e soggetti appartenenti alla criminalità organizzata; quest’ultimi, secondo quanto emerso, venivano sollecitati dagli indagati al fine di interessarsi per risolvere la situazione». Sarà D.C. a contattare Diego Rosmini, ritenuto dalla Dda elemento di spicco dell’omonima cosca, attiva nella zona sud di Reggio Calabria. Il 13 gennaio scorso il giovane si recherà proprio a casa di Rosmini è lui stesso a confermarlo agli amici. Non ci sono conversazioni o elementi che testimoniano se il “branco” abbia davvero chiesto a Rosmini di intervenire in qualche modo e né c’è alcun riferimento ad un eventuale sua azione fatto sta che F.S risponderà all’amico che «non glielo puoi dire una cosa di queste, perché lui già è in fase dibattimentale» e D.C. risponderà che «te lo faceva, però glielo volevo chiedere io, siamo appoggiati, 'nda sucano o no?». A sua volta F.S inciterà D.C. affermando «per forza dobbiamo fare così, è l’unica cosa che si puo fare perché ci arrestano a tutti». Su quest’ultimo passaggio i due avevano proprio ragione: li hanno arrestati. Ma non tutti. L’inchiesta sull’orrore della notte di San Lorenzo potrebbe allargarsi.