Il controesame dell’avvocato Galeota al collaboratore di giustizia. Dalla lupara bianca del 1997 alla presunta “messa a disposizione” del patron del Cin cin bar di Vibo su ordine del “Papa” Damiano Vallelunga (ASCOLTA L'AUDIO)
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«Carmelo Lo Bianco “Sicarro” finì con il convincersi che Gianfranco Ferrante (patron del Cin cin bar di Vibo Valentia) non c’entrasse nulla con la scomparsa del figlio Nicola». Lo ha ribadito il collaboratore di giustizia Andrea Mantella rispondendo all’avvocato Vincenzo Galeota nel corso del controesame in corso davanti al Tribunale di Vibo Valentia nell’aula bunker di Lamezia Terme.
La scomparsa del figlio del boss
«Al nostro interno – ha poi aggiunto Mantella – è sempre rimasto il sospetto che Ferrante c’entrasse, ma “Sicarro” fu convinto che non c’entravano né lui, né Campisi». La scomparsa per lupara bianca, risalente al 2 maggio del 1997, del figlio del boss, avrebbe avuto come movente – aveva già ribadito nel corso dell’esame davanti ai pm lo stesso Mantella – per un debito di droga avuto con il broker Domenico Campisi, rimasto ucciso nel giugno 2011 nel corso di un regolamento di conti interno al clan Mancuso.
Le tensioni nei Lo Bianco
La versione che in seno al clan fu fornita al padre del giovane scomparso, prospettava invece un coinvolgimento diretto di Gianfranco Ferrante, «storicamente legato ai Mancuso» - secondo il dichiarante e l’accusa - che avrebbe materialmente spinto dentro un’automobile Nicola Lo Bianco, il quale non fece più rientro a casa. «Lo hanno squagliato questo ragazzo», si diceva nella cosca, dove – peraltro – sia Leoluca Lo Bianco detto “il Rozzo” e Antonio Grillo alias “Totò Mazzeo”, avrebbero meditato proprio l’uccisione dello stesso Ferrante per rappresaglia. In seguito, dopo una fase di tensioni interne ai Lo Bianco, ed in particolare tra i cugini omonimi Carmelo “Sicarro” e Carmelo “Piccinni”, entrambi deceduti da tempo per cause naturali, i propositi di vendetta si sopirono.
Ferrante, i Mancuso e Vallelunga
I dettagli in relazione all’omicidio e alla distruzione del cadavere di Nicola Lo Bianco e sui rapporti tra Ferrante ed i Mancuso sarebbero stati appresi dal collaboratore di giustizia nel 2000, nel corso di un permesso premio. Ma il difensore di Gianfranco Ferrante, invece, data la conoscenza dei rapporti tra Ferrante ed i Mancuso nel 2003, alla luce di quanto già riferito in sede di esame davanti ai pm dallo stesso Mantella: «Come spiega questo contrasto?», ha incalzato Galeota.
«Già negli anni ’90 – ha replicato Mantella – quando io e Pantaleone Mancuso “Scarpuni” eravamo ricoverati, era Ferrante a portargli il cibo in ospedale. È una conoscenza storica. Poi la mia conoscenza della vicenda di Nicola Lo Bianco si divide in tre fasi. Nella prima, nel 1997, so in carcere da Carmine Galati. Nel 2000-2001 conosco i dettagli. Nel 2003 so invece del legame esistente tra Ferrante, i Mancuso e Vallelunga. L’ho appreso dallo stesso Ferrante quando si parlava dei propositi omicidiari nei suoi confronti».
Mantella ha ribadito anche di aver minacciato Ferrante e di aver rivendicato così la sua autonomia criminale rispetto ai capimafia del cui appoggio lo stesso Ferrante si sarebbe vantato. «Io, nel 2003, rispetto a Damiano Vallelunga io ero un ragazzetto, ero uno di serie B – ha detto il superpentito – Vallelunga era una sorta di Papa nella ‘ndrangheta. Allora ero in Serie B ma giocavo bene, mi avesse chiesto una cortesia mi sarei messo a disposizione. Con Vallelunga parlai e mi disse che se avessi avuto bisogno, Ferrante si sarebbe messo a disposizione ma tecnicamente non abbiamo concluso alcuna estorsione. Per lui sarebbe stato più conveniente pagare 20.000 euro l’anno di estorsione che non avermi lì tutti i giorni di casa e di bottega».