«Prima della mia collaborazione con la giustizia non ho mai avuto contatti con Emanuele Mancuso, mentre Raffaele Moscato l’ho intravisto due volte, una in un’agenzia di autonoleggio a Vibo e l’altra volta a casa di Salvatore Tripodi a Porto Salvo. Mai avuto, comunque, rapporti criminali con loro. Né li ho mai incontrati da collaboratori di giustizia». Così Andrea Mantella, in avvio del controesame operato dall’avvocato Marco Talarico, difensore di Domenico Moscato e Francesco Valenti, nell’ultima udienza del maxiprocesso Rinascita Scott. Il penalista ha quindi prodotto ai fini dell’acquisizione una sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione, pronunciata nel 2017, dal Tribunale di Vibo Valentia, inerente un procedimento patrimoniale a carico dello stesso Mantella e dei suoi familiari.

Mantella e gli atti del processo

«Signor Mantella, lei essendo imputato ha ricevuto tutti gli atti di questo processo. Li ha letti?», ha chiesto il penalista. Mantella: «No, non li ho letti, ho solo ricevuto tre o quattro fogli di chiusura indagini. Non curo più gli atti giudiziari come facevo quando ero mafioso. Ha tutto il mio avvocato». E poi, a domanda del difensore: «Ho in uso un telefono cellulare di trenta euro che non è funzionale a internet e con cui mi interfaccio con il Nucleo operativo di protezione e con le scorte. Non posso usare assolutamente né social, né internet, per non correre il rischio di essere rintracciato». E ancora: «Non ho un computer fisso. Ho la televisione ma non seguo la trasmissione su LaC di Rinascita Scott».

Il giovane boss finto pazzo

L’avvocato Talarico dirotta quindi sui tentativi di Mantella, prima della collaborazione, di fingersi affetto da malattie mentali: «Indossavo un cappellino e portavo la barba lunga. Mi facevo passare per pazzo ma non lo facevo davanti ai periti, non ne avevo bisogno perché li pagavo. Fingevo invece quando venivo visitato dai periti dell’autorità giudiziaria. Mi presentavo con la maglietta sporca e facevo un po’ lo scemotto. Dovevo farlo per non far saltare la mia rete di copertura: «È capitato, nel carcere di Vibo Valentia, che avessi finto di suicidarmi, ciò per far entrare i miei periti. Mi ero fatto dei segni così, dicevo che sentivo la sabbiolina e le formiche nel sangue, che sentivo i topi nelle vene… Questo non davanti ai miei periti, ma davanti ai medici dell’autorità giudiziaria. E così mi prescrivevano dei farmaci, che mi lasciavano ma che non ho mai ingerito. Li buttavo in bagno e tiravo lo sciacquone».

Detenuto in Sardegna

Sempre a domanda del difensore: «Sono stato detenuto a Cagliari, qualche settimana, nel 2011. Anche lì portavo avanti la finta malattia. Tutti i giorni mi visitavano. La sanità funziona più in carcere all’esterno. Mi ha visitato un’infinità di medici. Per me era una barzelletta, ma io ero un “GS”, ovvero un detenuto a “grande sorveglianza”, questo perché i medici magari temevano che mi suicidassi davvero e potevano avere guai. Ricordo che nel carcere di Palmi, a Reggio Calabria, fui capace di avvicinare un medico dell’autorità giudiziaria». In questa fase, ferma opposizione del pm Anna Maria Frustaci all’avvocato Talarico: «C’è un processo diverso, che si è già definito in primo grado. Vanno benissimo le domande sull’attendibilità, ma al modus operandi che prevede la riapertura di posizioni processuali già definiti l’ufficio di Procura di oppone».

Avvocato o untore?

Superata la schermaglia accusa-difesa e ripreso l’esame, Mantella ha smentito di aver mai fatto uso di stupefacenti. Poi l’avvocato: «Lei ha parlato di contatti che avrei avuto con il maresciallo Cannizzaro e l’avrei patrocinata per il dissequestro di un gregge. Era un mandato difensivo e la nomina del sottoscritto era per ungere?». Altra domanda a cui si è opposta il pm Frustaci, ravvisando «un’incompatibilità» dello stesso Talarico, per esplorare questioni afferenti dichiarazioni del collaborante sulla sua persona, benché non imputata nel maxiprocesso: «Non può fare domande su se stesso. Può farla qualunque difensore, ma non l’avvocato Talarico». Talarico ha spiegato che si tratta, «esclusivamente, di valutare la credibilità e l’attendibilità del collaboratore, visto che il sottoscritto non è né indagato né imputato in questo processo». La natura dell’opposizione ha quindi indotto il Tribunale a ritirarsi in camera di consiglio per pronunciarsi, che con propria ordinanza ha riconosciuto l’ammissibilità della domanda posta al collaboratore di giustizia.

Il dissequestro del gregge

«Io andavo all’autosalone di suo suocero, abitava davanti al chiosco di sua mamma, per questo mi rivolsi a lei – ha risposto Mantella – Lei mi disse che si sarebbe impegnato per le pecore che erano chiuse senz’acqua. Lei, come avvocato e come figlio di veterinario, si è impegnato per questo, per una questione di umanità nei confronti delle bestie». «Ma lei – ha rintuzzato l’avvocato Talarico – nell’udienza del 10 maggio ha invece sostenuto che il sottoscritto sarebbe intervenuto con il maresciallo Cannizzaro per mettere a tacere il maresciallo Alpalo, che era un carabiniere onesto e le aveva sequestrato il gregge…». A questo punto, il penalista ha esibito documenti afferenti il dissequestro del gregge, pronunciato dal Tribunale del Riesame di Vibo Valentia per le misure reali, a suo tempo presieduto dal giudice Vincenzo Capomolla, attuale procuratore aggiunto di Catanzaro. «Questo a dimostrazione – ha chiosato Talarico – che non c’è stato alcun intervento del maresciallo Cannizzaro, ma c’è stato un pronunciamento dell’autorità giudiziaria».

La perquisizione… superficiale

Talarico ha quindi esplorato il caso di una perquisizione, per cercare armi, nell’azienda di Mantella. Una perquisizione che, in sede di esame, ha sostenuto sia stata «superficiale», da parte dei carabinieri, grazie ad un altro intervento dello stesso penalista sul maresciallo Sebastiano Cannizzaro: «Che io ricordi non ho contezza di processi che scaturirono da quella perquisizione». Talarico ha invece chiarito, annunciando produzione documentale, come in quella perquisizione i carabinieri recuperarono materiale rubato che divenne oggetto di un processo per ricettazione a carico dello stesso collaboratore e della madre, definitasi nel febbraio del 2016 con sentenza assolutoria per lo stesso Mantella e per la madre.

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