Le trascrizioni dei nuovi verbali del boss-imprenditore pentito, Pino Liuzzo. Che parla del patto scellerato fra ‘ndrangheta e massoneria alla base del boom elettorale di Amedeo Matacena, candidato dei clan con il beneplacito di Forza Italia
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Voti in cambio di processi aggiustati grazie ad amici e grembiuli. Politici costruiti in vitro perché funzionali ad un comune progetto di cannibalizzazione di lavori e appalti pubblici grazie alla politica, in linea di continuità con i partiti romani. C’è un sistema in Calabria, anzi forse in Italia.
È emerso nelle operazioni che negli ultimi anni hanno iniziato a svelare l’esistenza, il ruolo e alcuni volti degli invisibili e di alcuni dei loro riservati.
Ma adesso che c’è un pentito che di quel sistema sa spiegare la forma concreta. Sa dire – in dettaglio – quanto abbia condizionato la vita politica, economica, sociale di Reggio Calabria. E può farlo perché lui di quel sistema ha fatto parte, lo ha vissuto, lo conosce ed oggi potrebbe contribuire a smontarlo.
Il boss imprenditore
Lui si chiama Pino Liuzzo ed è uno dei boss imprenditori più importanti degli ultimi decenni. A differenza della maggior parte degli altri pentiti, non conosce solo la struttura militare, ma ha avuto contatti diretti con tutti quei soggetti – imprenditori, professionisti, politici – magari toccati dalle inchieste e derubricati al rango di concorrenti esterni, o peggio estorti, vittime di un sistema.
«Ma scusa se tu è vent’anni che mangi con loro ora perché devi dire che sei che sei estorto?» - dice Liuzzo al procuratore aggiunto, Giuseppe Lombardo, che insieme al pm Walter Ignazzitto lo interroga. «Il novanta per cento… il novanta per cento è così».
Le rivelazioni di Liuzzo
E quel 90% Liuzzo lo conosce nome per nome, affare per affare. Per questo, sebbene la sua collaborazione sia recente e lui non abbia ancora neanche esaurito i 180 giorni in cui un pentito deve quanto meno a grandi linee dire tutto ciò che sa, i suoi verbali sono stati depositati in una serie di processi.
A partire da Breakfast, il procedimento che tra gli altri vede imputato l’ex ministro dell’Interno, Claudio Scajola, con l’accusa di aver aiutato l’ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena a sottrarsi al carcere in seguito alla condanna definitivo per concorso esterno.
Ed è fra quelle carte che – sebbene non abbiano convinto il Tribunale a riaprire il dibattimento – emerge il vero progetto costruito attorno all’elezione in Parlamento di Matacena.
Quando Forza Italia puntava su Crea
Un piano funzionale agli interessi di ‘ndrangheta ed imprenditoria di ‘ndrangheta in Calabria, come agli obiettivi politici di Forza Italia, che – afferma Liuzzo – sapeva perfettamente da dove venisse il successo elettorale del politico armatore e puntava anche a imbarcare un altro signore delle preferenze.
«Amedeo – mette a verbale Liuzzo - con referenti di Roma, dice vogliono tirare dentro a Crea» Motivo? «Loro volevano che Mimmo Crea passasse perché aveva un plotone di voti da fare paura. Ci parlano che prendeva 4/5 mila voti».
Scajola il regista
Il perché di tanto successo lo ha spiegato la sentenza con cui Crea è stato condannato definitivamente a 7 anni e mezzo come politico dei clan. Liuzzo invece indica con precisione i registi dell’operazione.
«Uno era Alfredo Biondi, poi ce ne era un altro che veniva, che scendeva sempre, però non me lo ricordo adesso».
La memoria lo aiuta una decina di minuti dopo, quando il neopentito si interrompe e dice ai magistrati «Scajola».
A scuola di politica
Matacena invece, all’epoca già parlamentare, doveva agevolare i contatti sul territorio.
Ma anche lui era un politico costruito in vitro. E la cosa era costata anche una certa fatica. «Non era un luminare - dice Liuzzo - però dopo tanta scuola... perché Matacena ha fatto scuola a Roma da persone, da Alfredo Biondi, era suo compagno, voglio dire, da persone proprio specializzate per fare studio a… persone preparate per andare al Parlamento».
Stesso metodo – ha svelato l’inchiesta Mammasantissima, poi confluita nel maxiprocesso Gotha – usato per “creare” politici come il senatore Antonio Caridi, adesso a processo per concorso esterno, o l’ex governatore Giuseppe Scopelliti, su cui l’avvocato Paolo Romeo è sincero fino alla brutalità «dura» - spiega intercettato - se «cammina su una strada... di grande partecipazione», comprendendo che il suo ruolo deve essere quello del «cane di mandria» e la sua funzione di «rappresentante».
Attorno a tutti loro, emerge da indagini e processi, c’era un progetto di altri.
Il candidato degli invisibili
Su Amedeo Matacena – spiega Liuzzo – era stato il padre Elio a cucirlo su misura. «Il padre – dice Liuzzo voleva portare il figlio a farlo diventare onorevole. A livello romano. Si, avere un deputato a Roma».
Un progetto condiviso con i massimi vertici dei clan, i pochissimi abilitati a frequentare certi ambienti e mantenere rapporti con i rappresentanti di “altri” poteri. Soggetti con cui il Cavaliere – stando a quanto raccontano pentiti di rango come Cosimo Virgiglio – era in rapporti più che cordiali.
Insieme ad altri grandi imprenditori come i Montesano– sostiene Virgiglio – «facevano parte della “Fenice”, la loggia coperta collegata a quella dei “Due mondi”».
Il varco dei due mondi
Una loggia assai frequentata dai vertici occulti dei clan, come «tale avvocato Romeo» dice il pentito, ma anche professionisti, politici, rappresentanti delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Un’erede di quella che nel ’79, secondo il pentito Barreca aveva ricevuto la benedizione eversiva del terrorista nero Franco Freda? Forse. Di certo, molti nomi sono gli stessi, a partire da quelli degli avvocati Paolo Romeo e Giorgio De Stefano, come si Matacena senior.
Dunque non a caso, uno dei pentiti storici di Reggio Calabria, il superkiller Giuseppe Lombardo, già a fine anni Novanta affermata «la “cupola" che governa tutti gli interessi illeciti nella città e che ècostituita da esponenti della mafia, della politica, della massoneria e dell'imprenditoria» ha come «referente politico… l'onorevole Amedeo Matacena».
Voti per sentenze
In più, svela oggi Liuzzo, il Cavaliere non solo era “persona di fiducia”, ma aveva anche messo sul piatto il proprio capitale sociale di rapporti. Massonici, ovviamente.
«Diego (Rosmini, all’epoca esponente di primissimo piano dei clan reggini) dice, “sai ci hanno promesso in poche parole, dice, non è una questione di soldi è una questione, essendo che Santa Barbara è andata male, essendo che il padre di Amedeo Matacena, il cavaliere voglio dire, è massone dice ci ha promesso delle garanzie”.
Il vecchio aveva promesso, in poche parole, sia di mettere a disposizione gli avvocati pagava lui, e sia che, in poche parole, aveva delle amicizie a Roma e che il processo lo faceva tornare indietro».
La crociata per Amedeo
Una rappresentazione plastica di cosa abbia significato per la ‘ndrangheta entrare in ambienti massonici dalla porta grande. E sul perché anche per imprenditori, professionisti e politici sia un affare conveniente, Liuzzo è cristallino «il risultato dei voti che c’è stato tra Matacena nel 94 e Paolo Romeo appoggiato, voglio dire, da uno schieramento da fare paura, voglio dire, si vede, voglio dire, ecco la forza, voglio dire il lavoro che c’è stato». Per Amedeo, afferma, «è stata fatta una crociata».
Traduzione? «Quando lui è entrato in Forza Italia, lui ha avuto un boom da fare paura». E questo perché è «stato toccato, voglio dire, proprio a 360 gradi».
Schieramento trasversale
Nel corso di quella campagna elettorale, nessuno si è sottratto. Tutti hanno lavorato per Matacena e lui tutti ha incontrato.
«Con tutte le famiglie degli arcoti schieramento condelliano, rosminiano, Serraino e company, tutta la montagna, la buonanima di Musolino e… è andato dai Pelle, tutti gli Alvaro, Peppe Piromalli e i Mammoliti. Voglio dire: Matacena era il loro candidato, voglio dire.
C’è stata una cosa, voglio dire, proprio dai voti poi che ha preso». Lo schieramento a suo favore era enorme, includeva anche i rappresentanti delle “vecchie famiglie” di Sambatello, come gli Araniti, o gli Imerti di Villa. Senza distinzione la ‘ndrangheta ha appoggiato Matacena, perché «dopo della guerra – spiega Liuzzo - c’è solo, voglio dire, divisi non esistono più questi schieramenti. Ormai sono tutti imparentati».
E il candidato dei clan, aggiunge il pentito, ci teneva anche a non usare intermediari, a incontrare tutti personalmente, «Pietro Labate, i Nicolò, i Serraino» snocciola Liuzzo, «andava a mangiare con i figli di Gambazza» e «con Mico Condello andava a giocare a pallone, insieme a Manazza, quello delle macellerie». Con Matacena avevano a che fare tutti e con lui tutti avevano a che fare. E il perché lo spiegano gli affari e i milioni di appalti pubblici macinati da tutti i clan del reggino.