Nessuna sentenza racconta che la morte dell'educatore carcerario fu decisa per continuare a tenere nascosti i rapporti fra 'ndrangheta e servizi. Una relazione strutturata oggi al centro del processo 'Ndrangheta stragista
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Trent’anni. Di silenzi, di verità parziali che hanno sconfinato nelle bugie, di omertà istituzionale. Sono passati trent’anni da quell’11 aprile del 1990 in cui l’educatore carcerario Umberto Mormile è stato massacrato in pieno giorno, con sei colpi di pistola.
Quella mattina, due killer a bordo di una moto hanno affiancato la sua auto che e gli hanno riversato addosso una scarica di piombo. Milano, indifferente, all’epoca ha letto quell’omicidio come uno dei tanti. Forse così si sperava che passasse. Ma la storia di Umberto Mormile non è una storia come tante. E parla anche calabrese.
Vittima (di pezzi) di Stato
L’educatore del carcere di Opera è stato massacrato per coprire un segreto, è stato coperto di fango per continuare a nasconderlo e condannato a non avere giustizia per permettere a tanti di tacere su un pezzo di storia della Repubblica che ancora deve essere raccontato.
A trent’anni dalla morte di Umberto Mormile, il suo omicidio rimane uno dei simboli del patto sporco fra pezzi di Stato, di servizi addestrati alla scuola delle operazioni sporche di marca staybehind, di mafie. Un patto indegno che per decenni ha condizionato il Paese. E forse lo fa ancora.
Verità storiche mai diventate sentenza
Di quei rapporti, qualcosa Mormile aveva intuito. Per questo è stato massacrato. Ma questa è verità mai tracimata in una sentenza. Per i Tribunali della Repubblica, che hanno dato per buone le prime dichiarazioni del pentito Antonio Schettini, l’educatore era un corrotto, ammazzato per questioni di soldi dalla ‘ndrangheta dei boss Antonio e Domenico Papalia con cui si era accordato e che aveva tradito. Ma non è andata così.
Lo ha sostenuto da sempre la famiglia, ha combattuto per anni per affermarlo la compagna Armida Misere poi morta – a quanto pare – suicida anni dopo, da direttrice del carcere di Sulmona. Adesso però iniziano a raccontarlo anche i pentiti.
L’alfa e l’omega di una stagione di sangue
Vittorio Foschini, Salvatore Pace, Nino Fiume ed Antonino Cuzzola lo mettono a verbale e lo riferiscono in udienza da anni. Quando l'attività giudiziaria riprenderà in modo regolare saranno chiamati a ripeterlo anche al processo d'appello di Palermo sulla Trattativa Stato-mafia.
Ma tutti hanno già sfilato di fronte alla Corte d’Assise al processo ‘Ndrangheta stragista e di Mormile hanno parlato perché quell’omicidio svela i rapporti – da tempo stabili, organici e paritari – fra pezzi di mafie e pezzi di servizi, che insieme hanno voluto anche firmare quell’esecuzione come Falange Armata. La stessa sigla con cui quasi quattro anni dopo a Consolato Villani fu ordinato di rivendicare gli attentati contro i carabinieri, che sono costati la vita ai brigadieri Fava e Garofalo. L’alfa e l’omega di una stagione di sangue passata da attentati e omicidi in tutto il Paese e tutti firmati Falange Armata.
Obiettivo, mantenere il potere
In mezzo – ha ricostruito l'inchiesta del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo – ci sono anni di comune strategia con cui mafie, pezzi di servizi legati a Gladio, di massoneria piduista ed eversione nera hanno preteso con attentati, stragi e trattative di non perdere un grammo del potere nei decenni conquistato. Rapporti che Mormile, ancor prima che il sangue macchiasse le strade e le bombe esplodessero nelle piazze, aveva capito.
Con i propri occhi ne aveva visto gli effetti nel carcere di Opera in cui lavorava. E per questo, con tanto di «nulla osta» dei servizi, Umberto Mormile è stato massacrato.
«Tutti eravamo Reggio»
A raccontarlo in dettaglio è stato il pentito Vittorio Foschini, negli anni Novanta capo del clan Coco Trovato a Milano, dunque «referente dei De Stefano». Di tutti i collaboratori, è forse quello che più sa e più in dettaglio perché uomo di peso non solo della ‘ndrangheta milanese di quegli anni, ma anche di quel “Consorzio” che da tempo gestiva affari e politiche comuni di tutte le mafie, a Milano e probabilmente non solo. Al vertice, c’era Antonio Papalia, originario di Platì ma da tempo a Milano e «capo di tutta la ‘ndrangheta della Lombardia». Ma tutti, spiega Foschini «eravamo Reggio. E anche i petilini in quegli anni hanno chiesto di passare sotto la madonna della montagna per essere più protetti. Anche i Vrenna e i Grande Aracri – aggiunge – erano con noi».
«Mormile non era un corrotto»
In quel mondo, Foschini si muoveva a stretto contatto con i vertici. Per questo sa, per questo adesso può parlare. Mormile – dice chiaro e subito Foschini – non era un corrotto, nonostante tutto il fango che gli hanno riversato addosso. È stato ucciso per aver scoperto i rapporti dei potentissimi fratelli Papalia con i servizi, i loro frequenti incontri in carcere e i benefici che la ‘ndrangheta e non solo ne ha ricavato.
I servizi e il carcere colabrodo per i boss
Foschini lo sa, perché quel regime di favore lo ha sperimentato «Quando Papalia era detenuto a Parma – spiega – noi facevamo quello che volevamo. Non solo usciva per i permessi premio. Entravamo pure noi in carcere. Io sono entrato nella cella di Emilio Di Giovine, che all’epoca era nostro nemico, per dirgli che doveva lasciarci le sue zone. Nella cella c’era lui in vestaglia, insieme a suo zio, che non era detenuto. E sono entrato io. E io mi chiamo Foschini, con la famiglia Di Giovine non c’entro niente».
Quel no che ha inceppato l’ingranaggio
Ad Opera, dove Mico Papalia, fratello del superboss Antonio, era detenuto le cose andavano diversamente. «Mormile aveva capito che Papalia non era cambiato, aveva ancora a che fare con noi, aveva fatto una serie di relazioni negative al tribunale di sorveglianza, che per questo aveva bloccato i permessi». Un problema per il boss, che secondo quanto raccontato dal pentito, nonostante la detenzione, rimaneva il vertice assoluto del clan ed elemento del gotha della ‘ndrangheta reggina tutta, attiva, coesa e dall’agire coordinato e concertato tanto a Reggio Calabria e nella sua provincia come a Milano e in tutta la Lombardia. Con i permessi bloccati, il meccanismo di trasmissione e scambio di informazioni e ordini si inceppava.
Un’allusione, una condanna
Mormile poi non era malleabile come altri. «Prima Domenico in carcere chiese il favore a Mormile, voleva una relazione addomesticata; Mormile rifiutò – mette a verbale Foschini in uno dei suoi interrogatori - e aveva già bloccato un permesso di Domenico Papalia. Ci fu un diverbio. Domenico comunicò la cosa al fratello Antonio in un colloquio dicendogli di convincere il Mormile». La ‘ndrangheta non accetta i no. «Antonio – continua a riferire Foschini - nei giorni successivi, subito fuori dal carcere, avvicinò il Mormile che si rifiutò di nuovo nonostante la promessa di 20 milioni dicendo che lui non era dei servizi».
Un’allusione potrebbe aver condannato l’educatore. «Gli ha detto “Io non sono dei servizi”. E allora Domenico Papalia ha dato l’ordine di ucciderlo». Dopo – racconta – ci avrebbero pensato i servizi a piazzare al suo posto qualcuno di più morbido e malleabile, in modo da ripristinare i margini di libertà e manovra del boss.
L’omicidio ordinato da Domenico Papalia
Un quadro confermato anche dal pentito Nino Cuzzola, uno degli esecutori materiali dell’omicidio. «Lo ha ordinato Domenico Papalia. A suo fratello ha detto “Non presentarti neanche a colloquio fin quando sul giornale non leggo dell’omicidio” – afferma – Mormile è stato ucciso perché a un detenuto ha confidato che Papalia aveva rapporti con i servizi, faceva i colloqui dentro il carcere». Troppi iniziavano a sapere. E i re del Consorzio hanno deliberato l’omicidio. Ma prima hanno dovuto chiedere il permesso.
Il nulla osta dei servizi
«Secondo il racconto fatto a me da Antonio Papalia, lo stesso Domenico Papalia precisò anche che bisognava parlare con chi di dovere e cioè con i servizi, vista l'allusione che era stata fatta e visto che non si doveva sospettare di loro (cioè dei Papalia)».
Ad occuparsi del contatto – racconta Foschini – è stato Antonio in persona e dopo quel colloquio, insieme al nulla osta ha ricevuto istruzioni precise. L’omicidio doveva essere rivendicato come Falange Armata. La stessa sigla poi usata per firmare l’omicidio dei carabinieri a Reggio Calabria, gli attentati di via Palestro, via dei Geogofili ed altri.
Rivendicazione su commissione
L’incarico – spiega Foschini – viene dato da Antonio Papalia a «Totò Brusca (persona che comunque potrei riconoscere) di telefonare ad un giornale e fare la rivendicazione a nome di questa presunta organizzazione terroristica. Ciò avvenne sotto i miei occhi addirittura prima dell'omicidio. Il Papalia Antonio, infatti, disse a questo Brusca che appena eseguito l'omicidio, lui doveva fare la telefonata di rivendicazione». Le istruzioni vengono seguite alla lettera, quello di Mormile diventa il primo di una lunga serie di omicidi, attentati, stragi, diversi per target e luogo, ma che oggi appaiono tutti maturati nel medesimo contesto e attribuibili agli stessi mandanti.
«Verità e giustizia per Umberto»
Per questo ormai diversi anni fa, con l’avvocato Fabio Repici, la famiglia Mormile ha chiesto un nuovo processo per andare a fondo sull’omicidio di Umberto. L’estate scorsa, con lo stesso intento il fratello, Stefano, ha rivolto un appello accorato al ministro della Giustizia, Bonafede. Ma al momento, ancora nessuna risposta è arrivata.
Omicidio prima prova del protocollo Farfalla?
Eppure ricostruire in dettaglio i contorni dell’omicidio Mormile appare sempre più di fondamentale importanza per comprendere davvero una lunga stagione di storia italiana. Già diversi anni fa, il procuratore Vincenzo Macrì, oggi in pensione individuava in quell’omicidio la prova tragica del “protocollo Farfalla”, che permetteva ai servizi di entrare in contatto con i boss al 41bis per ottenere informazioni senza neanche informare la magistratura. Ufficialmente sempre negato. Solo negli ultimi anni si è ammesso che dal 2004 esiste un accordo riservato di collaborazione stipulato tra il DAP e l’ex SISDE mirato in sostanza a uno scambio di informazioni e alla formazione di una sorta di archivio dati. Ma in realtà, il protocollo secondo alcuni esisterebbe da molto più tempo e non sarebbe stato mirato solo alla semplice acquisizione di informazioni.
Nodo carceri centrale
«Sono convinto che anche se la nascita “ufficiale” del Protocollo Farfalla risale al 2004, il circuito carcerario è stato sicuramente uno snodo centrale della “trattativa” 92-94. – diceva il procuratore Vincenzo Macrì, in un’intervista di alcuni anni fa - La stessa revoca, o non proroga, del regime di detenzione speciale di cui all’art. 41 bis O.P., per alcune centinaia di detenuti, avvenuta nella seconda metà del 1993 fa capire quanto fosse importante la questione carceri all’interno una trattativa tra mafia e istituzioni». Anche perché sono diversi gli episodi ancora oscuri.
Quel filo ancora non spiegato che lega Gioè a Papalia
«Vi sono alcune vicende che già in quegli anni appaiono estremamente significative e nello stesso tempo ancora non chiarite – spiega Macrì - Mi riferisco al “suicidio” in carcere di Antonino Gioé, avvenuto nel carcere di Rebibbia il 29 luglio del 1993, le cui modalità lasciarono, ma lasciano ancor più oggi, molto perplessi sulla dinamica di quel suicidio, come si può rilevare dalle foto dell’interno della cella.
Sul tavolino posto vicino al cadavere del detenuto fu rinvenuta una lettera, il cui contenuto è tutto da decifrare soprattutto nella parte in cui si diffonde nella difesa, senza apparente connessione con la strage di Capaci di cui Gioè era accusato, del detenuto Domenico Papalia, personaggio di primissimo piano, almeno all’epoca, della ‘ndrangheta calabrese. Ritengo che, proprio per il prestigio di cui godeva a livello criminale, Papalia avesse un ruolo di primo piano nell’ambiente carcerario e nelle complesse manovre che in esso si svolgevano». Nomi che tornano, circostanze oscure e ambigue, capitoli di storia ancora da scrivere. E vittime, come Umberto Mormile, che ancora attendono giustizia piena.