«Soriano ha il terrore. In giro c’è una paura pazzesca. E io dico che quello che è successo la sera del 31 dicembre si poteva evitare. Perché in tutti questi anni non si è fatto abbastanza, almeno qui, per far comprendere a questi criminali che non possono andarsene in giro con tale spavalderia ad ammazzare la gente, perfino da barbiere. Io ho fiducia nelle istituzioni, ma quanto sangue dovrà scorrere ancora prima che si faccia pulizia?». Martino Ceravolo, il papà di Filippo, vittima innocente della criminalità organizzata, ucciso per errore da un commando mafioso la sera del 25 ottobre del 2012, sera di San Silvestro era a casa.

Ha sentito le sirene in lontananza accorrere verso il centro del suo paese. Solo dopo poche ore si è sparsa la notizia dell’agguato nella barberia, costato la vita a Giuseppe De Masi, trentanovenne, già coinvolto e prosciolto in alcune inchieste antimafia, che da tempo avrebbe deciso di vivere in maniera riservata, dedicandosi alla famiglia ed alle sue imprese, un autolavaggio ed un’attività di movimento terra.

«Era una persona gentile»

«Era una persona che mi capitava di incontrare, era sempre molto educata e gentile», spiega Martino. E ciò già significa qualcosa, in una realtà nella quale, spesso, il papà di Filippo - impegnato in una battaglia personale e senza tregua per tenere viva la memoria del figlio ucciso e per invocare giustizia, al fianco delle autorità dello Stato e alle forze dell’ordine - viene considerato «lo sbirro», dileggiato e offeso, quasi «fossi io - spiega - a dovermi vergognare di qualcosa e non coloro i quali, dopo aver ammazzato un innocente, continuano a condurre la loro vita come se niente fosse».

La faida non c’entra

Così, la sua vita resta indissolubilmente intrecciata in una realtà che non cambia. «Ripeto - spiega Martino - io ho fiducia nello Stato e so che prima o poi mio figlio avrà giustizia e tutti coloro che hanno seminato il terrore da queste parti dal 2012 ad oggi pagheranno con la galera il male che hanno fatto. Ma ripeto anche che secondo me si poteva fare prima e di più. La gente doveva prendere coraggio e invece ora ha più paura di prima».

Con l’omicidio di Giuseppe De Masi, probabilmente, la faida che ha insanguinato le Preserre vibonesi non c’entra. E benché le modalità siano evocative della ferocia mafiosa, il movente del delitto e la sua maturazione sarebbero lontani dalle logiche ’ndranghetiste di controllo del territorio. «Io non ho idea di cosa possa esserci dietro - dice ancora Martino Ceravolo - né ho elementi, oltre quelli che apprendo dagli organi di informazione, per farmi un’idea, ma posso testimoniare che il clima è brutto, proprio brutto. Che la gente se ne sta rintanata in casa e ha paura di uscire. Ed è peccato, perché Soriano è un paese bellissimo, la cui immagine viene devastata da questa mentalità alla quale non si riesce a porre un freno».

Come nel 1997

Un agguato eclatante, che scuote l’opinione pubblica per feroce spavalderia di chi lo ha portato a termine. E che lascia tante vittime: non solo De Masi, ma anche i suoi figli di otto e dieci anni, la giovane moglie, gli altri affetti estranei ed innocenti, una comunità devastata dallo stigma che una violenza cieca e primordiale le ha procurato. Questo non è solo il paese al centro delle Preserre - fra Gerocarne, Sorianello e Acquaro - della prima e della seconda faida, quella dei Loielo contro i Maiolo e dei Loielo e contro gli Emanuele. Questo è anche il paese che prima di Filippo Ceravolo conobbe un’altra giovanissima vittima innocente: si chiamava Domenico Macrì ed era uno studente universitario di appena ventun’anni.

Qualcuno rubò l’auto al padre ed egli affrontò gli autori del furto chiedendo loro che la restituissero. Un commando, così si armò e fece ritorno in piazza, scatenando una pioggia di piombo incurante della folla che assisteva ad una partita di calcetto: era il 30 agosto 1997. Ventiquattro anni dopo, analoga follia omicida, stesso clima, lo stesso stigma.