L’aula bunker di Lamezia apre i tornelli del maxiprocesso Rinascita Scott il 13 gennaio: oltre 300 imputati, almeno sulla carta circa 500 avvocati, uno imponente spiegamento di forze dell’ordine. Giungono giornalisti ed operatori tv da tutto il mondo. Il divieto di pubblicazione delle riprese audio-video, sancito con una ordinanza del collegio giudicante (Brigida Cavasino presidente, Claudia Caputo e Gilda Romano giudici a latere) provocherà uno stillicidio di degli operatori dell’informazione sin dalle udienze successive. Il maxiprocesso alla ‘ndrangheta, al centro di una intera puntata di Presa Diretta, su RaiTre, si trasforma in breve in una notizia da cronaca locale.

Il Supremo

Al di là dei numeri, è un grande procedimento per i contenuti. Il principale imputato è Luigi Mancuso, detto il Supremo, colui che dopo le stragi del 1992 radunò i grandi capi della ‘ndrangheta, ma si mostrò restio ad abbracciare l’attacco allo Stato che Cosa nostra ha inteso produrre sul Continente. Imputati anche i suoi uomini più fidati, ma anche i presunti capi delle grandi famiglie mafiose del Vibonese, prima belligeranti e poi riappacificate dalla diplomazia dello “zio Luigi”, scarcerato nel 2012 dopo diciannove anni ininterrotti di detenzione. È anche il processo ai colletti bianchi, ovvero alla metafora del rapporto mafia-politica-massoneria-istituzioni.

Giancarlo Pittelli

La posizione chiave, quella più controversa, è rappresentata da Giancarlo Pittelli, principe del foro ma anche parlamentare di lungo corso: il Giano brifronte, per l’accusa; un innocente che paga per la sua clamorosa ingenuità, secondo la difesa, forse protagonista di condotte censurabili sul piano etico o morale, ma non punibili penalmente. Pittelli finisce in carcere a Badu ’e Carros, poi ai domiciliari. Verrà riarrestato dalla magistratura di Reggio Calabria in un’inchiesta parallela a Rinascita Scott, prima in carcere, poi ai domiciliari. Scriverà, nella coda del 2021, una lettera al ministro per il Sud Mara Carfagna: è una «richiesta di aiuto» che finisce subito alla Polizia. Il Tribunale di Vibo Valentia, ravvisando «il tentativo di interferire sul processo», lo rimanda in carcere. In collegamento dal penitenziario di Melfi interverrà in udienza professando la sua innocenza, non solo rispetto alle accuse di concorso esterno a lui mosse, ma anche davanti all’aggressione mediatica che «ha fatto strame della mia vita – dirà – e di quella della mia famiglia».

I pentiti

Il processo decolla con l’esame dei collaboratori di giustizia. Si parte con quelli storici crotonesi: Pino Vrenna e, a seguire, Luigi Bonaventura. Poi gli altri, dai reggini Nino Fiume e Paolo Iannò, al superpentito di Cosa Nostra Gaspare Spatuzza. Decine. Si arriva a quelli fondamentali per l’economia dell’accusa, i più recenti: Raffaele Moscato, l’ex killer dei Piscopisani; Andrea Mantella, ex padrino emergente di Vibo Valentia e dichiarante principe; Emanuele Mancuso, il primo a saltare il fosso nel potentissimo clan di Limbadi e Nicotera; Bartolomeo Arena, il più recente, che assume assoluta centralità nella prima parte del dibattimento. In aula si alternano i tre pubblici ministeri del pool di Nicola Gratteri: Antonio De Bernardo, il tecnico, Anna Maria Frustaci, la battagliera, ed Andrea Mancuso, lo schematico.

I difensori

In aula ci sono penalisti tra i più noti d’Italia. Luigi Mancuso si affida a Francesco Calabrese, prestigioso penalista reggino, e ad un avvocato giovane e di talento, Paride Scinica. Giancarlo Pittelli opta per una difesa che trasforma in un evento i controesami ai collaboratori: Salvatore Staiano, leone del foro, aggressivo ma preparato; Guido Contestabile, gentiluomo e competente. C’è un solo importante penalista, nel collegio difensivo, che prese parte al maxiprocesso di Palermo, Giovanni Marafioti. C’è poi Alessandro Diddi, difensore di Salvatore Buzzi in Mafia Capitale e promotore di giustizia in Vaticano, che difende Giovanni Giamborino, braccio destro del Supremo. C’è anche l’avvocato del defunto Totò Riina, Luca Cianferoni, che assiste diversi presunti accoliti del boss di Zungri Peppone Accorinti. Il superlatitante Pasquale Bonavota, indicato come la più pericolosa primula della ‘ndrangheta, l’uccel di bosco più ricercato dopo Matteo Messina Denaro, si affida Tiziana Barillaro, giovane ma già affermata penalista calabrese. I fratelli di Bonavota, invece, ad una delle più storiche espressioni dell’avvocatura calabrese, Nicola Cantafora.

I media e la prima sentenza

Sul maxiprocesso sono pochi i riflettori accesi. Se ne occupa, richiamandolo nelle sue inchieste, Report. Giungono a singhiozzo troupe tedesche e francesi, per i loro documentari sulla ‘ndrangheta. LaC Tv dedica un format, due cicli per venti puntate, molto seguito in Calabria, ma anche, grazie al web, nel resto d’Italia e all’estero. Poche le testate web regionali che con maggiore o minore costanza, se ne occupano. Latita la stampa nazionale. L’attenzione dei media si rianima solo quando, il 6 novembre, il gup Claudio Paris pronuncia la sentenza per gli imputati che hanno scelto, all’udienza preliminare apertasi nel 2020, il giudizio abbreviato: 70 condanne, 19 assoluzioni, 2 prescrizioni. Il giudice riconosce l’importanza dell’evento per l’opinione pubblica e autorizza le riprese audio-video. Commina pene per complessivi sei secoli di carcere. Tiene il castello accusatorio soprattutto per i principali imputati: da Pasquale Gallone, la longa manus di Luigi Mancuso, a Domenico Camillò, Mommo Macrì e Francesco Antonio Pardea, capo, il braccio armato e mente dei Ranisi di Vibo Valentia.

La polizia giudiziaria

L’aula bunker torna così, subito, appannaggio del maxiprocesso con rito ordinario. Chiusa la girandola dei collaboratori di giustizia, si parte con la polizia giudiziaria. I primi esami riguardano i sottufficiali del Ros di Catanzaro che hanno condotto una porzione delle indagini che hanno portato al maxiprocesso. Con loro si chiude il 2021. Il 2022, invece, si aprirà con uno dei momenti cruciali del maxiprocesso, ovvero l’esame dei vertici del Ros di Catanzaro, che tratteranno il reato associativo contestato agli imputati: il tenente colonnello Giovanni Migliavacca e il colonnello Massimiliano D’Angelantonio, due tra i principali investigatori della storica maxioperazione deflagrata il 19 dicembre di due anni fa.