VIDEO | La Corte d’Assise di Reggio Calabria alza il tiro e punta ai mandanti occulti delle stragi: nelle motivazioni della sentenza il sistema perverso di potere fatto di ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, massoneria deviata, politica e servizi segreti. Dalle alleanze criminali alla nascita di Forza Italia (ASCOLTA L'AUDIO)
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«È emerso “oltre ogni ragionevole dubbio” che il sostegno a quel disegno stragista la ‘Ndrangheta lo ha dato proprio attraverso i tre agguati ai danni dei carabinieri commissionati a Villani e Calabrò nel mese di novembre 1993 e realizzati in stretta consecuzione temporale e con la medesima arma, al chiaro fine di esplicitare agli investigatori il collegamento tra di loro e con la strategia ideata ed avviata in Sicilia dai corleonesi per “chiudere la trattativa con lo Stato». Centottanta giorni di lavoro, 1078 pagine per riscrivere la storia delle stragi di mafia degli anni ’90 e consacrare come verità giudiziaria il ruolo fattivo della ‘Ndrangheta in tale strategia stragista, «guardata con favore da certi settori deviati della massoneria e degli apparati di sicurezza che avevano un obiettivo in comune con la ‘Ndrangheta e Cosa nostra, cioè l’eliminazione della vecchia classe politica».
Sono queste le motivazioni con le quali la Corte d’Assise di Reggio Calabria ha condannato all’ergastolo Rocco Santo Filippone e Giuseppe Graviano, quali mandanti degli agguati ai carabinieri avvenuti in provincia di Reggio Calabria negli anni 1993 e 1994. Azioni criminali che, come sostenuto dalla Direzione distrettuale antimafia reggina, non furono estemporanee, ma s’inquadrarono in una precisa strategia stragista che metteva insieme diverse entità. È la stessa Corte d’Assise a rimarcarlo, affermando che «non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile che dietro tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che, attraverso la “strategia della tensione”, volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici e godere di benefici e agevolazioni».
La corsa solitaria del procuratore Lombardo
Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, massoneria, servizi segreti e politica. Un connubio devastante quello che si cela dietro l’azione stragista che ha insanguinato l’Italia nei primi anni ’90. Un quadro storico che è stato completamente riscritto dal lavoro certosino di un pubblico ministero, il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che non si è fermato di fronte alle difficoltà di una inchiesta che si prestava a notevoli rischi sotto il profilo della tenuta in dibattimento. E non certo per la fragilità della tesi accusatoria, ma per il notevole lasso di tempo trascorso dal compimento di quegli atti efferati, nonché per la complessità di un contesto da dover delineare con protagonisti ormai fuori dai giochi, alcuni neppure più in vita e con tanti segreti portati nella tomba. Ed invece, con la tenacia che gli ha permesso di riscrivere già altre fondamentali pagine della storia reggina, il pm Giuseppe Lombardo ha presenziato a quasi tutte le udienze, non tralasciando alcun dettaglio. Ha esaminato in maniera minuziosa ogni teste, tirando fuori verità che sembravano quasi impossibili da raccogliere. Ha persino ottenuto qualcosa che nessuno aveva mai osato immaginare: la fiducia del boss di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano. Sì, perché è stata proprio la fiducia in un magistrato scevro da qualsivoglia interesse esterno o possibile condizionamento a permettere ad un criminale del calibro di Graviano, di parlare e narrare le sue verità che hanno dato non poca sostanza alle tesi dell’accusa. Non una collaborazione, sia chiaro. Ma punti fermi ben precisi che oggi, alla luce delle parole vergate dai magistrati della Corte d’Assise, assumono un significato pregnante.
I rapporti Cosa Nostra-‘Ndrangheta
Sono pagine di fuoco quelle scritte dal presidente della Corte d’Assise, Ornella Pastore, e dal giudice estensore, Vincenza Bellini. Una sentenza che dimostra tutto il coraggio di una Corte che non si è fatta mai condizionare, che ha portato avanti un dibattimento nel pieno rispetto delle procedure, pur non tralasciando mai quell’aspetto umano che è emerso con forza nel corso degli anni in cui il processo è stato vissuto.
Viene definito come «dato accertato» quello della stretta sinergia criminale fra ‘Ndrangheta e Cosa Nostra sin dagli anni ’60. Un’alleanza che «si era particolarmente rinsaldata nel 1991, a seguito della ritrovata pax mafiosa nella ‘Ndrangheta reggina, intervenuta dopo circa 7 anni di guerra che avevano lasciato sul campo centinaia di morti fra cui, non solo molti capi della ‘Ndrangheta, ma esponenti di primo piano della politica reggina». Il riferimento, manco a dirlo, è all’omicidio Ligato, ritenuto la mente pensante della cosca De Stefano e fatto fuori dal cartello condelliano. E se in un primo tempo il rapporto fra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta si manifesta sotto forma di condivisione di comuni affari illeciti e in genere scambio di favori, esso via via si evolve «fino alla condivisione di progetti terroristici-eversivi e politici».
Per i magistrati, dall’apporto dichiarativo di numerosi collaboratori di giustizia (vedi Fiume, Nucera, Foschini, Pace, Annacondia), emerge «una nitida fotografia dell’esistenza in Lombardia dalla fine degli anni ’80 di una confederazione di mafie nazionali tradizionali di estrazione territoriale diversa, una cabina di regia nazionale in cui vi erano uomini di vertice di Cosa nostra, ‘Ndrangheta e Camorra, a cui capo erano i fratelli Papalia della ‘Ndrangheta jonica, coadiuvati da Franco Coco Trovato che era uomo di ‘Ndrangheta stanziale in Lombardia». E viene individuata proprio la componente lombarda della ‘Ndrangheta, come quella che «nelle riunioni di Nicotera Marina e nelle altre che pure si svolsero per discutere della proposta stragista, più delle altre spingeva per la piena alleanza ed il pieno sostegno alla strategia stragista di Cosa Nostra». Sarà proprio Coco Trovato, insieme a Luigi Mancuso, entrambi appartenenti al consorzio milanese, secondo le parole di Fiume, a farsi promotore delle riunioni. Così come trovano fondamento le parole del pentito Di Giacomo che narra del momento in cui Riina intervenne per favorire la fine della seconda guerra di ‘Ndrangheta, trasferendo quel modo di agire sinergico già collaudato per attività come il traffico di armi e stupefacenti, con l’obiettivo di «diffondere il terrorismo» o così ottenere dei benefici normativi per i mafiosi. E da qui arriva l’idea di portare il progetto stragista fuori dai confini della Sicilia, chiedendo l’appoggio ai calabresi, che si identificano nella cosca De Stefano, nei Piromalli e nei Mancuso, le tre cosche egemoni in Calabria. «L’accordo stragista fra le due organizzazioni di tipo mafioso di cui ha riferito Spatuzza – scrivono i giudici – non è dunque nato dal nulla, ma è frutto di rapporti datati e risalenti fra i due sodalizi coordinati proprio dagli uomini di Brancaccio, quelli cioè che materialmente organizzarono le stragi continentali».
L’adesione della ‘Ndrangheta e la “falsa politica”
I giudici non hanno dubbi: sulla base egli elementi raccolti, si può dire con certezza che su input di Totò Riina si decide di avviare quella strategia stragista che avrebbe dovuto trovare il proprio culmine con la strage dei carabinieri allo stadio Olimpico di Roma all’inizio del 1994. Tale strategia, rammenta la Corte, ebbe un’accelerazione dopo la storica sentenza del maxiprocesso, che segnò l’inizio dell’attacco frontale alle istituzioni, facendosi strada, nell’estate del 1992, che, oltre a colpire uomini simbolo dell’antimafia come i magistrati Falcone e Borsellino, il potere contrattuale di Cosa Nostra «si sarebbe accresciuto se gli attentati fossero stati realizzati nel continente con l’appoggio non solo delle altre famiglie siciliane, ma anche della ‘Ndrangheta nella sua espressione più alta, che non poteva rifiutare il suo sostegno in ragione degli acclarati e risalenti collegamenti e cointeressenze criminali tra cosche mafiose siciliane e la componente di vertice della ‘Ndrangheta calabrese rappresentata dalle famiglie De Stefano-Piromalli».
Ma perché i calabresi avrebbero dovuto dare appoggio a Cosa Nostra? La risposta la fornisce il collaboratore di giustizia Giuseppe Di Giacomo, nella parte in cui racconta che vi era la comune finalità della modifica del rigoroso regime carcerario del 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Circostanza confermata da diversi collaboratori di giustizia, fra cui Vincenzo Grimaldi, il quale ha narrato come nel corso di un processo a Reggio Calabria, dopo essersi lamentato per le condizioni carcerarie, ebbe rassicurazioni da Santo Asciutto, il quale gli disse che i Piromalli raccomandavano di stare tranquilli in quanto i siciliani avrebbero fatto eliminare a tutti il 41bis così come lo avevano fatto dare con le stragi di Falcone e Borsellino.
Nella narrazione dei giudici emerge poi il racconto di diversi pentiti che descrivono la riunione avvenuta fra i capi della ‘Ndrangheta, in contrada Badia, nell’estate del 1991, per discutere della proposta stragista di Cosa Nostra. In quell’occasione ricorda Nino Fiume, Franco Coco Trovato aveva manifestato apertura e disponibilità, mentre Giuseppe De Stefano non si era dimostrato favorevole, assumendo un atteggiamento più cauto. A quella di contrada Badia, seguì poi la riunione al villaggio Sayonara di Nicotera Marina, nell’estate del 1992, sempre sotto il patrocinio di Luigi Mancuso, il quale illustrò la proposta di adesione alla strategia stragista siciliana. Mancuso che, però, stando al racconto del pentito Pino, avrebbe mostrato perplessità per i rischi connessi ad una tale azione. Non deve però trarre in inganno questo atteggiamento, scrivono in modo netto i giudici. Come ha spiegato Fiume, infatti, «nella ‘Ndrangheta, come in Cosa Nostra, spesso si fanno girare ad arte notizie infondate. E spesso molti affiliati non sanno cosa davvero dice e decide il vertice dell’organizzazione». Niente più di quella che tutti conoscono come la “falsa politica” della ‘Ndrangheta, aspetto rimarcato con forza dal procuratore Lombardo nel corso della sua requisitoria. A ciò vanno aggiunte dichiarazioni di pentiti come Giovanni Brusca, il quale ha ricordato di aver appreso da Spatuzza che molti calabresi si lamentavano del 41bis e che lo stesso gli disse di non prendersela con Graviano, ma con «i loro padri», facendo intendere che tutto quelli non fu fatto solo dai siciliani, ma d’accordo con i calabresi». Per la Corte, poi, «deve ritenersi un dato acclarato che Mancuso-Pesce e Piromalli fossero “una triade”, ossia una cosa sola per cui, in linea con la falsa politica che governa le organizzazioni di stampo mafioso, è giocoforza ritenere che le predette famiglie, peraltro promotrici dell’incontro in Contrada Badia nel 1991 ed al Sayonara nel 1992, fossero unite e d’accordo». In buona sostanza, dunque, la riunione al Sayonara fu «una farsa perché l’appoggio era stato già dato dai capi ‘Ndrangheta che non potevano e non volevano esporsi al rischio di false promesse verso Totò Riina e, dopo il suo arresto, dei suoi fedelissimi». In sostanza, dunque, «la proposta era stata portata in consesso agli altri capi famiglia, ma in realtà l’adesione era stata già data e i dubbi manifestatisi servivano solo a depistare per non essere poi accusati, qualora quella scelta si fosse dimostrata deleteria per l’organizzazione mafiosa calabrese». Ci furono, dunque, delle «riunioni di “facciata per evitare malcontento, ma la parola finale spettava ai soggetti che in quel momento erano a capo della ‘Ndrangheta, ossia i Piromalli e i De Stefano, i più legati ai siciliani».
Infiltrazioni e coinvolgimento della massoneria
Come detto, però, non c’è solo mafia nelle stragi degli anni ’90. Esiste anche una «risalente commistione tra Cosa nostra e massoneria deviata, in un perverso sistema di cointeresserenze, sfruttato dall’organizzazione mafiosa siciliana in costane raccordo sinergico con la ‘Ndrangheta per accrescere il proprio potere criminale». Così si esprimono i giudici della Corte d’Assise reggina. Da quanto emerso nell’istruttoria, «prima che prendesse avvio la strategia stragista voluta da Cosa nostra ed appoggiata dalla ‘Ndrangheta, venne elaborato, in ambienti massonici collegati con la destra eversiva, un nuovo progetto politico di tipo separatista-secessionista, in collegamento e in parallelo al fenomeno in ascesa del leghismo settentrionale».
I giudici ripercorrono tutte le tappe storiche più importanti: dalla fine del 1989, dopo la caduta del muro di Berlino, fino all’omicidio di Lodovico Ligato. «In quel preciso anno – scrivono – iniziò una intensa attività preparatoria e organizzativa sul terreno politico, finalizzata alla costituzione di un unico soggetto politico meridionalista di riferimento, in cui far confluire le spinte autonomistiche delle regioni del centrosud». In questo progetto vi erano ambienti della massoneria, soprattutto deviata (già legata a Licio Gelli ed alla P2), ma anche della destra eversiva (il riferimento è a Stefano Delle Chiaie, uno dei fomentatori dei moti reggini del 1970) e della criminalità organizzata siciliana e calabrese. Quel progetto di una unica lega meridionale, però, fallì per le divisioni presenti all’interno di quel sistema composito che lo aveva ideato. Si iniziano quindi a formare nuovi movimenti di tipo separatista. La prima “Lega sud Italia” viene fondata nel 1990 a Reggio Calabria, al teatro comunale, con presidente Giuseppe Schirinzi, personaggio della destra eversiva, legato a doppio filo ai Moti di Reggio ed all’avvocato Paolo Romeo. In tale contesto nel quale fiorivano le leghe meridionali, Gelli «aveva assunto il ruolo di registra, essendo riuscito a far coagulare le varie componenti eterogenee di tale movimento e ad agevolare l’adesione delle organizzazioni criminali a tale progetto, approfittando della insoddisfazione nei confronti della vecchia classe politica, che aveva raggiunto il livello più alto. Il maxiprocesso fece il resto, convincendo i siciliani della necessità di agire con le stragi, chiedendo l’appoggio alla ‘Ndrangheta.
La scelta di aderire a Forza Italia
Nel frattempo, siamo nel gennaio 1992, nasce a Lamezia Terme “Calabria libera”, progetto seguito poi da “Sicilia Libera”, movimento sposato da Leoluca Bagarella. In contemporanea arriva l’omicidio di Salvo Lima, poi la sentenza del maxiprocesso e quindi le stragi di Capaci e via D’Amelio. È a quel punto che lo Stato reagisce con il carcere duro. È l’apice dello scontro fra Stato e antistato che, però, decide di farsi Stato e avviare le stragi. Sul fronte politico, intanto, Scalfaro scioglie le camere il 16 gennaio del 1994. Finisce la prima Repubblica. Pochi giorni dopo, il 26 gennaio, Berlusconi annuncia la nascita di Forza Italia in una convention organizzata all’hotel Majestic di via Veneto. «A quel punto – scrivono i giudici – Cosa Nostra e ‘Ndrangheta abbandonano il progetto separatista/secessionista e puntano tutto su Forza Italia». È la politica di quel periodo a spiegare cosa avessero in mente Cosa Nostra e ‘Ndrangheta, nel momento in cui si alleano e perché il 1 febbraio 1994 si interrompono all’improvviso le stragi: «Bisognava attendere i frutti dell’attacco allo Stato». La speranza era l’aiuto di Silvio Berlusconi. «Strategia criminali e strategia politiche si intrecciano fra loro – scrive la Corte – favorite dall’esistenza di un comitato d’affari tra ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, servizi segreti e politica». Una commistione che, secondo le dichiarazioni di Pasquale Nucera, sarebbe stata favorita anche da Licio Gelli che, per controllare la ‘Ndrangheta, aveva fatto in modo che ogni componente della “santa” venisse inserito automaticamente nella P2. «Il collante del sistema è quindi la massoneria deviate – spiegano i giudici – con cui da sempre sono legate a stretto filo ‘Ndrangheta e Cosa Nostra».
Falange armata e servizi segreti
Un filo rosso, in tutta questa vicenda, è certamente rappresentato dalla sigla con la quale furono rivendicati diversi episodi criminosi dell’epoca. Ci si riferisce ovviamente a “Falange armata”, il cui nome compare non solo in occasione dell’omicidio Mormile, nel 1990, ma anche dopo l’omicidio del giudice Scopelliti, dopo l’omicidio Lima e le stragi siciliane e continentali. Ma a quale scopo fu usata? «Cosa nostra e le altre organizzazioni criminali con il ricorso a tale sigla intendevano rafforzare la minaccia contro il Governo, attraverso rivendicazioni nelle quali si prospettavano ulteriori bombe dirette a provocare numerose vittime», scrivono i giudici che poi riprendono: «Deve ritenersi che Bagarella sapesse in tempo reale della rivendicazione con la sigla “falange armata” proprio perché aveva conferito espressamente l’incarico di effettuarla, facendolo portare a termine da Giuliano Francesco, soggetto certamente intraneo a Cosa Nostra». Il riferimento è agli attentati di Roma e Milano del 27 luglio 1993. La sigla “Falange armata”, utilizzata anche per rivendicare gli attentati ai danni dei carabinieri uccisi in Calabria, «doveva servire per creare sconcerto nell’opinione pubblica, ma soprattutto per non consentire l’attribuzione alle organizzazioni mafiose tali gravi fatti criminosi». Tanto la ‘Ndrangheta quanto Cosa nostra, infatti, volevo evitare che «tali azioni criminose potessero essere loro ricondotte». Ma quanto c’entrano i servizi segreti nell’utilizzo della sigla “Falange armata”? Secondo i giudici «è verosimile – sulla base degli elementi emersi – che altri soggetti dalle menti più raffinate e in rapporti con esponenti degli apparati di sicurezza abbiano potuto avere l’idea di utilizzare tale sigla». «È emerso – proseguono i giudici – come personaggi di vertice di Cosa nostra e della ‘Ndrangheta avessero rapporti con esponenti degli apparati di sicurezza che avrebbero potuto insinuare l’idea di rivendicare gli attentati con la sigla della “Falange armata” per realizzare un effetto di depistaggio, in perfetta linea con le finalità con cui quella sigla era stata “creata in laboratorio”».
Caccia ai mandanti occulti
Ma il livello di Filippone e Graviano è l’ultimo davvero? Oppure c’è qualcuno, ancora più in alto, che in questa storia è coinvolto? Mandanti ancora oggi rimasti occulti? La risposta la Corte la va ad inserire nella parte dedicata alla posizione di Giuseppe Graviano. Ripercorrendo le parole di Gaspare Spatuzza, è emerso come fosse partita proprio da Graviano l’indicazione di colpire i carabinieri, per l’uniforme che portavano. Emblematica la conversazione avvenuta all’interno del bar Doney. Accadde, però, che Graviano, pochi giorni dopo quelle parole, fu arrestato mentre cenava in un ristorante alla moda di Milano, dopo un pomeriggio di shopping. Una cattura che Graviano proprio non si aspettava. «Riguardo alla tempestica dell’attentato ai carabinieri del 18 gennaio 1994 e di quello fallito allo stadio Olimpico, è emerso come nel medesimo contesto temporale, poco distante rispetto al bar Doney, «fossero in corso delle riunioni che avrebbero portato di lì a poco alla ufficializzazione della nuova formazione politica Forza Italia, il cui fondatore, Silvio Berlusconi, viene spesso evocato da Graviano nel corso delle conversazioni con Umberto Adinolfi, unitamente ad uno dei maggiori esponenti, Marcello Dell’Utri, soggetto risultato contiguo a Cosa Nostra». Non è un mistero, come ricordato in precedenza, che «nel corso del dibattimento, lo stesso Graviano ha fatto chiaramente intendere di avere intrattenuto rapporti con i predetti esponenti politici e di avere nutrito delle speranze per il fatto che erano arrivati al governo nuovi partiti da cui si aspettavano delle modifiche legislative favorevoli».
Insomma, «ciò che si ricava ancora è che dietro tutto ciò non vi sono state soltanto le organizzazioni criminali, ma anche tutta una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti) che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato per ottenere anch’essi vantaggi di vario genere, approfittando anche di un momento di crisi dei partiti tradizionali». E la Corte va oltre, perché al fine di identificare tali soggetti gli atti sono stati trasmessi alla Procura della Repubblica. Tradotto: per i mandanti occulti c’è poco da dormire tranquilli. Perché i magistrati reggini continuano a lavorare.
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