Al via la requisitoria del processo “’Ndrangheta stragista”. A ricostruire tutti i passaggi venuti fuori dall’istruttoria dibattimentale il procuratore aggiunto Lombardo
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«La ‘ndrangheta non è un insieme di soggetti che dimentica determinati accadimenti. La famiglia Calabrò è una famiglia in cui si innesta un collaboratore di giustizia senza che vi siano state conseguenze». Con queste parole il procuratore aggiunto, Giuseppe Lombardo ha avviato la requisitoria del processo “’Ndrangheta stragista” che vede alla sbarra Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone accusati di essere i mandanti di quelle stragi.
Gli elementi chiave del processo
Sono quattrodici gli elementi chiave su cui Lombardo pone la sua attenzione.
- «Calabrò e Villani materialmente agirono da soli, ma su mandato di ben individuate cosche di ‘ndrangheta. Noi oggi ci occupiamo di Graviano e Filippone, ma il processo ci ha rivelato un contesto molto rilevante, un circuito di vertice della ‘ndrangheta con ruoli superiori del singolo soggetto. Poi vedremo perché si sceglie Rocco Santo Filippone e perché porta con sé Villani e Calabrò», ha spiegato Lombardo.
- «Quali erano queste cosche di ‘ndrangheta che hanno dato mandato a Calabrò e Villani di seminare terrore. C’è una fase in cui tutte le attenzioni vanno verso i carabinieri. Ed è la fase in cui hanno inizio le stragi continentali. Le famiglie coinvolte, contrariamente ad una lettura distratta, non sono solo le famiglie della Piana di Gioia Tauro, Piromalli-Molé e Filippone. C’è un imputato che manca perché è deceduto. Ed è un soggetto di rilievo in relazione alle cosche della città di Reggio Calabria, e in particolare del cartello. Erano tutti tornati. È Demetrio Lo Giudice, detto Mimmo, che apprendiamo era stato il soggetto incaricato di addestrare Calabrò all’uso delle armi, ma non in qualsiasi poligono di tiro. Lui cresceva per diventarne probabilmente il killer più importante di quegli anni. Aveva dimostrato una freddezza ed una capacità, nel momento in cui era nipote di Rocco Santo Filippone».
- «Anello di congiunzione fra tali sodalizi. Stiamo parlando dei temi che porta all’attenzione il pentito Di Giacomo, quando spiega quali sono le famiglie di vertice nella ‘ndrangheta. Abbiamo un riferimento ai Piromalli-Molè e De Stefano-Tegano-Libri. Abbiamo Filippone collegato alla ‘ndrangheta tirrenica e Lo Giudice alla ‘ndrangheta reggina. Filippone svolge ruolo di cerniera fra i Piromalli e quelle del territorio di Reggio Calabria, nel momento in cui dà l’incarico al nipote Calabrò e Villani di attaccare i carabinieri. Villani ci dice che gli sembra di ricordare che quando Rocco Santo Filippone disse di essere più spietati e fare i morti, colloca il momento alla settimana antecedente al Natale del 1993. Graviano transita dalla Calabria per andare in Sicilia il 17 dicembre 1993».
- «Oltre a Rocco Filippone, uomo di grande rilievo nella ricostruzione è Demetrio Lo Giudice, deceduto purtroppo qualche anno fa – ha spiegato Lombardo – poco prima che il lavoro di questo ufficio arrivasse a conclusione in fase cautelare. Lo Giudice era referente della cosca Libri nella zona di S. Antonio, ma soprattutto un uomo che aveva contatti con ambienti che andavano oltre le dinamiche di base della ‘ndrangheta reggina. Avete sentito accostare il suo nome alla figura di Giovanni Aiello. Io alle coincidenze non ci credo, nella misura in cui chi è che accosta il nome di Lo Giudice a quello? Giuseppe Calabrò. Per la evidente volontà di Calabrò di ritrattare le dichiarazioni, nel momento in cui subisce le pressioni e le minacce di Marina Filippone, sua madre e sorella di Rocco Santo. Vedrete, dal verbale, che Calabrò disse per la prima e unica volta la verità. Perché il passaggio in cui Calabrò è chiamato a precisare i motivi per i quali aveva scritto la lettera al procuratore nazionale antimafia Grasso, sono talmente chiari che lasciano poco spazio a ricostruzioni alternative. La prima cosa che fa Calabrò è alzarsi in piedi e iniziare a urlare «mi ammazzano, ammazzano tutta la mia famiglia». Leggete quello che dice Calabrò quando ritratta la prima volta, dopo l’inizio del suo percorso di collaborazione con la giustizia. Già all’epoca Calabrò giustifica la ritrattazione dicendo che non può dire la verità, perché passa dallo sterminio della mia famiglia. Quel Demetrio Lo Giudice diventa elemento di rilievo perché lui non è uno qualsiasi, nel momento in cui Nino Lo Giudice decide di dover aprire un punto vendita di frutta a S. Antonio e si ritrova a interloquire con Demetrio Lo Giudice. Giuseppe Calabrò è un uomo di ‘ndrangheta di altissimo profilo».
- «Quando parliamo di componenti apicali della ‘ndrangheta – ha rimarcato Lombardo – parliamo della ‘ndrangheta tutta. Oggi siamo in grado di fare affermazioni sulla base delle acquisizioni fatte che ci consentono di capire come è strutturata la ‘ndrangheta verso l’alto e perché organizzare quegli incontri nei villaggi di Nicotera. Cosa che volle Franco Coco Trovato che diventa elemento di vertice della ‘ndrangheta nel momento in cui sposa la figlia di Carmine De Stefano. Coco Trovato insieme ad Antonio Papalia vogliono quella riunione. L’incontro di Nicotera è una riunione in cui la ‘ndrangheta di vertice effettivamente si riunisce per dare adesione alla strategia di Cosa nostra o rientra nella falsa politica, con riunioni che servono a far recepire dalla base il messaggio opposto? Falsa politica come metodo di comando: tu hai una base che è convinta di determinate decisioni, con un vertice che fa il contrario. Chi ce lo spiega in modo chiaro? Antonino Fiume che si è seduto a tavola con la famiglia De Stefano. Il cuore del problema è capire la ‘ndrangheta che cosa volle fare organizzando gli incontri in cui si parlava delle stragi da consumare. La ‘ndrangheta formalmente non poteva non organizzare quelle riunioni, ma cosa si decise è l’esatto opposto che il vertice decise di fare dando adesione a Cosa nostra. Riprendendo le parole di Nino Fiume che ci racconta le parole di De Stefano, avete cosa è la falsa politica. Per anni ci hanno detto che la ‘ndrangheta disse no, ma in verità nelle sue poche componenti apicali decise di aderire alla strategia stragista».
- «Nella prospettiva di questa intesa criminale fra ‘ndrangheta e cosa nostra, come si inserisce la “falsa politica” della ‘ndrangheta sui grandi temi che ne caratterizzano l’agire? I delitti contro i carabinieri rappresentavano il completamento e la prosecuzione. Voluta da chi? Da Giuseppe Graviano che ha reso un contributo enorme su temi che ha introdotto lui. Non possiamo far finta che Graviano non abbia parlato».
- «I delitti per cui si procede avevano una caratteristica che consente di cogliere sul piano logico la loro perfetta coerenza con il piano eversivo e l’obiettivo terroristico. Tempi, obiettivi e modalità dei fatti erano univoci. Ecco perché introdurre nel 2009 Spatuzza, in un processo ormai incanalato, non può essere un dato su cui non possiamo non confrontarci. La strage dell’Olimpico è l’ulteriore chiave di lettura che ci consente di comprendere quanto sono rilevanti gli attentati ai carabinieri in Calabria. La ‘ndrangheta si muove in quel momento perché era la fase decisiva per ottenere quanto era stato chiesto. L’incontro nella campagna dello zio di Calabrò in cui egli sente i siciliani parlare e in cui il cugino Antonio gli dà il mandato di fare ciò che è stato fatto, si iscrive nel periodo in cui si progetta l’attentato all’Olimpico. Gli agguati ai carabinieri non erano mirati a colpire individuati appartenenti all’Arma» ha aggiunto Lombardo.
- «L’obiettivo che si perseguiva – ha rimarcato Lombardo – era la necessità per le mafie di partecipare ad un’opera di ristrutturazione del potere. Tale strategia era servente rispetto ad una strategia più alta. Le intercettazioni con Adinolfi sono devastanti ed è stato lui a confermare che sono vere. Mai avrei immaginato di leggere intercettazioni caratterizzate da quei contenuti».
- «Modalità operative della strategia e l’utilizzo di moduli e meccanismi terroristici già utilizzati in passato. Perché reiterate le azioni con cadenza ravvicinata? Non si dovevano mandare solo messaggi a chi doveva capire, ma si doveva creare una situazione di fibrillazione talmente profonda da innescare tutta una serie di comportamenti ulteriori della gente comune, in grado di cancellare tutto quello che era riferibile al passato». Per il pm «un’azione di forza talmente evidente che doveva andare oltre il singolo episodi Tali strategie stragiste sono il frutto del lavoro di persone che hanno un altissimo livello intellettuale criminale. Quando si decide di arrivare a messaggi mirati e individuare obiettivi che hanno tutti le stesse caratteristiche, questo non dipende dal caso. Il periodo in cui si verificano gli episodi non è qualsiasi».
- «È emerso che gli attentati continentali – ha sostenuto Lombardo – hanno una evidente diversità di fondo, da identificare nella loro chiara e immediata riconducibilità a Cosa nostra. Falange armata ha firmato sia atti terroristici di Cosa nostra che gli attentati ai carabinieri».
- «Per la ‘ndrangheta era in gioco la ripartizione del potere reale fra Stato e mafie negli anni a venire. Le mafie intendevano porre uno stabile collegamento dopo la fase storica del 1989-90, anni di rilievo perché sono quelli in cui finisce la guerra fredda. Cadono i blocchi contrapposti e le mafie hanno la necessità di ricollocare il loro ruolo in uno scenario profondamente mutato. L’intendimento di fondo è mantenere relazioni in grado di agevolarle. Avremo la dimostrazione – conferma il procuratore aggiunto – che le tantissime fonti dichiarative che ci parlano di progetti politici ci consentono di arrivare a conclusioni di grande peso processuale. Si ritiene dimostrata una dinamica degli eventi che conferma il disegno criminale portato avanti da ‘ndrangheta e Cosa nostra. Tra ’90 e ’94 – e ce lo dimostra la storia – si determinano nuovi equilibri politici interni allo Stato. E anche su questo Graviano si riferisce a periodi storici che, ai miei occhi, hanno una grandissima rilevanza. Sono convinto che non l’ha fatto per caso, quando dice che sapeva della nascita di Forza Italia già nel 1992. Perché lui che decide di parlare e dire certe cose non l’ha fatto per caso. Si assiste, in quel periodo, a grandi cambiamenti. Finisce la democrazia bloccata.
Le grandi organizzazioni criminali sono chiamate a superare la prima Repubblica. Queste modifiche, che sembrano riferite solo al piano politico, avevano travolto quel sistema che, fino alla fine degli anni ’80, aveva assicurato potere alle grandi organizzazioni mafiose. Le mafie avevano capito che, modificandosi lo scenario a livello internazionale, anche per merito di Mani pulite, bisognava muoversi per tempo, individuando nuovi referenti politici. Perché niente sarebbe stato più come prima. Se io oggi esco fuori e chiedo a chiunque se la ‘ndrangheta ha aderito alla strategia stragista mi sentirò dire di no. Questa è la realtà in una città come Reggio Calabria. Le mafie hanno referenti politici di altissimo livello».
- Per Lombardo «dalle indagini svolte e dalle risultanze dei processi, è emerso che l’innesco di tutta una serie di strategie mafiose non è solo di matrice politica in senso stretto. Il cosiddetto “facilitatore”, uno stratega. Andate a verificare a cosa accade parallelamente agli accadimenti politici fra ’90 e ’94. La paura di perdere potere sconvolge determinati apparati istituzionali. Lo dicono delle sentenze che, per noi, rappresentano la base di partenza. Si sono mosse, al fianco delle mafie, tutta una serie di forze che, al contatto con le mafie, diventano forze mafiose. La goccia di caffè è la mafia; il bicchiere di latte è la parte bianca della società. Quando la parte bianca è macchiata in maniera irreversibile, diventa mafia. E quello che è successo in Italia fra il ’90 e il ’94 diventa compenetrazione fra mondi che hanno obiettivi comuni. L’errore che non si deve fare è che si possa totalizzare il giudizio. La politica non è un insieme di mafiosi. Gli apparati di sicurezza non sono un insieme di persone stragiste. Basta. Vanno perseguite le responsabilità individuali. Non bisogna cadere nel tranello delle mafie.
Quando si crea un contatto fra bianco e nero, non è privo di conseguenze. E quello che è avvenuto in Italia è il contatto che si crea fra le componenti di vertice e le componenti soggettive che, in origine mafiose non sono, ma che, nella stabile relazione con le mafie, diventano parte del sistema. C’è stato un momento storico in cui alcuni accadimenti hanno provocato smarrimento, ma non per questo la tenuta istituzionale è venuta meno. C’è stato il tentativo di far rimanere inalterato un sistema strutturato per anni e che si era autoconvinto che non ci fossero alternative. Era il sistema che dovevano evitare un ruolo di peso al cosiddetto blocco comunista. Ecco perché quella parte di istruttoria dedicata alle leghe meridionali, al ruolo di Gladio. Chi destabilizza quel sistema? La dà il presidente del Consiglio dei ministri nell’ottobre del 1990, nel momento in cui viene svelata una serie di operazioni che servivano a stabilizzare il blocco occidentale. Si tratta della stagione in cui il maxi processo 1 si avvia alla conclusione e Cosa nostra ha un problema processuale non da poco. Quello che ci ha raccontato Giuliano Di Bernardo avrebbe provocato decine di pagine di cronaca giudiziaria. Ci ha detto che il vertice del Goi, e quindi la più importante obbedienze massonica nazionale, ad un certo punto si è trovato di fronte ad una realtà che diceva che il Goi era totalmente controllato dalle mafie. E cosa ha aggiunto? Ci ha raccontato che, contrariamente a cosa nostra, che aveva infiltrato suoi uomini, per quanto riguarda la ‘ndrangheta la situazione era non più affrontabile. 28 logge su 32 erano di ‘ndrangheta. Giuliano Di Bernardo ci ha detto di sapere che la lista sequestrata della P2 non è completa. E tutto diventa normale in questa nazione?»
- «Nella nostra opera ricostruttiva relativa alla dinamica dei fatti, in relazione ai processi per le stragi di quegli anni – spiega Lombardo – si innesta un disegno eversivo di più grande portata con ricadute politiche di grande rilievo. La stagione stragista, allora, non è il frutto della decisione di un grande capomafia come Giuseppe Graviano, il quale inserisce il suo ruolo in uno scenario in cui il risultato perseguito non è solo potenziale, ma programmato e da raggiungere. È quella la fase in cui la ‘ndrangheta pragmatica decide di fare il passo decisivo. Andate a vedere cosa dice il pentito Messina in merito alle regioni in cui doveva essere attuato il piano autonomista. La prima regione che nomina è la Calabria. E al senatore che chiede, risponde: «Noi siamo una cosa unica. I vertici sono una cosa unica». Vogliamo far finta che i collaboratori non ci abbiano detto che Peppe Piromalli e Paolo De Stefano sono cosa nostra? La componente siciliana è venuta a dire a quella calabrese «noi abbiamo questo progetto».
Ed è un progetto di cui parla il pentito Nucera nell’episodio di Polsi del 1991. Riina che fa? Prende la sigla che ha utilizzato la ‘ndrangheta per uccidere Mormile. A chi vogliamo raccontare che quella sigla sia stata raccontata dallo stesso sistema mafioso? La ‘ndrangheta perché si attiva ad un certo punto? Perché le risposte non sono soddisfacenti. Dopo aver ucciso Falcone e Borsellino e aver attentato al patrimonio artistico ed ecclesiale – perché San Giovanni in Laterano è la sede del vescovo di Roma – che io ho sentito con le mie orecchie quando studiavo a Roma. Quando si muovono sul versante calabrese? Quando bisogna dare una risposta definitiva sulla guerra totale. Importante ciò che dice Gioacchino Pennino nel 2014, quando ci dice «e ci sono voluti 20 anni perché Reggio Calabria venisse a sentirmi?». Leggete il verbale di Pennino, nipote dell’omonimo zio, uno dei cervelli della componente mafiosa che fa capo a Bontade e Inzerillo. Dice che «la prima volta che il guardaspalle di mio zio mi fece tagliare i capelli è nei pressi dell’hotel Excelsior di Reggio Calabria». Ancora oggi c’è un barbiere. «Lei deve sapere che mio zio, ogni 15 giorni si recava in Calabria e spesso e volentieri mi chiedeva di accompagnarlo. Veniva prelevato da soggetti che lo portavano in Aspromonte dai fratelli Musolino». Si tratta di don Rocco Musolino che è colui il quale cede il terreno su cui il padre di Calabrò costruire l’edificio oggetto di “Araba fenice”. «Mio zio prendeva ordini dai Musolino». Morto lo zio, Pennino viene chiamato e gli si chiede se si voglia costituire il “comitato d’affari”. Cosa è avvenuto nell’autunno del ’93? Che, come raccontato da Calabrò, quando la componente ‘ndranghetista è stata invitata ad AcqueBianche di Rosarno, lì si sono incontrati i siciliani e i calabresi, quando i siciliani hanno chiesto di intervenire ai calabresi. Calabrò, anche con i silenzi con cui ha cercato di recuperare, ha capito quanto pesante fosse il racconto fatto. Come lo ha capito Consolato Villani che ha capito quale era il disegno. E le parti non capite gliele ha spiegate Nino Lo Giudice. Ogni tassello è andato al suo posto. Dove Graviano ha perso la sua lucidità e ha fatto autogol? Quando recuperati i tabulati, ci siamo imbattuti nel nominativo più vicino a Graviano, come Fabio Tranchina. Vi posso confessare che, quanto detto dai carabinieri chiamati a deporre dalla difesa Graviano, non può che darmi definitiva conferma. Sono coloro che avevano arrestato i Graviano e hanno detto che erano convinti di aver catturato solo Giuseppe, senza capire che c’era anche Filippo. Graviano ascolta l’analisi dei tabulati e ritiene di comunicare al figlio e al nipote, nel colloquio registrato, che c’è da dire cosa che non è stata detta che «quel telefonino non lo utilizzava lui, ma la cognata Francesca Butitta». Lui, però, mente sapendo di mentire perché lui sa perfettamente che quello che dice il colonnello Brancadoro è vero. E il colonnello spiega che, quando hanno arrestato Giuseppe Graviano, erano convinti di aver preso solo lui. E le attività hanno riguardato la compagna. E hanno capito di aver preso Filippo quando ha fatto una chiamata e ha detto di chiamare il fratello».
«La ‘ndrangheta ha sempre dialogato», ha chiosato il pm. «Io e il procuratore siamo figli di una terra in cui la ‘ndrangheta sperimentò il dialogo con lo Stato nel momento in cui cessarono i sequestri di persona. E quando il dialogo è fruttuoso, le bombe non servono. Quindi anche la ‘ndrangheta che tendenzialmente evita lo scontro frontale si è trovata a non poter argomentare la possibilità di sperimentare vie alternative rispetto alla stagione stragista. Ecco perché il racconto di Calabrò è uno dei più importanti degli ultimi 20 anni di storia giudiziaria. È comprensibile la paura di Calabrò in quell’interrogatorio di Tempio Pausania. Calabrò ha capito di aver segnato una svolta epocale e ha capito che c’erano altre verità da rivelare. Tanto è vero che, prima di ritrattare, il giorno dopo mi ha scritto e mi ha chiesto “Torni”. Stavamo programmando il viaggio di ritorno, perché Calabrò mi aveva scritto che c’è altro da dire. Quando ha capito che era un peso troppo grande da reggere, si è innestata la condotta della madre. Quel racconto di Calabrò vi spiega cosa lui sapeva e aveva da dire. Lo ricaviamo da Villani, Lo Giudice e da tutti quei passaggi necessari a capire il disegno eversivo servente a quello politico che evidenzia la sua portata ancor prima dell’inizio vero e proprio della stagione stragista.
La sigla Falange armata porta con sé un insieme di situazioni particolarmente significative vissute in quel territorio che è stato l’epicentro di relazioni di alto livello che è la Lombardia. C’è una parte di istruttoria che riguarda gli appartenenti alla famiglia Papalia ed ai Barbaro ed i loro rapporti con i De Stefano, che serve a meglio inquadrare come l’episodio dell’aprile 1990 non sia banale, nonché le relazioni tra le componenti di vertice di ‘ndrangheta e cosa nostra. Quando Nino Fiume spiega che, per capire come funzionava il sistema mafioso lombardo, non bisogna parlare di ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra, ma di cosa unica, sta facendo lo stesso discorso fatto da Messina».
Ma perché si erano mossi i Piromalli? «La ricostruzione fatta fino ad un certo punto voleva che non si fosse mossa solo la componente reggina, ma anche quella tirrenica, in quanto essa era impegnata nei postumi legati alla seconda guerra di mafia. E in parte era vero. Ma cosa ha accertato l’indagine? Che la componente reggina si era mossa, ma non poteva farlo quella tirrenica se è vero quello che ci dice Graviano che dietro le stragi si erano mossi determinati contesti. Noi consideriamo quello che ci dice Graviano. E noi abbiamo un gruppo Graviano che ha rapporti con una parte dell’imprenditoria milanese e poi scopriamo che tutta la ricostruzione fatta nel processo “Tirreno”, circa i rapporti di Angelo Sorrenti, si scopre che non è un soggetto estorto dai Piromalli-Molè ma è un loro uomo. E chi abbiamo in comune fra Graviano e i Piromalli? Una serie di soggetti di cui Graviano parla con Adinolfi. Ciò rileva nella misura in cui Graviano ha deciso di spiegare determinate dinamiche. E se Filippone è un uomo dei Piromalli e Graviano continua a dire che alla strategia stragista ha concorso una componente non ancora processata, ma che ha rapporti con i Piromalli, ciò deve essere portato alla vostra attenzione».
- La sigla Falange armata, poi utilizzata per rivendicare gli attentati mafiosi, «è stata ideata e utilizzata da appartenenti infedeli ai servizi di sicurezza». È triste dover constatare che, nel corso del processo, «si è accertato – ha proseguito Lombardo – che questo è avvenuto. La grande intelligenza criminale dei soggetti di cui abbiamo parlato finora, si scontra con la loro ignoranza circa la cultura generale. Dopo molti anni, anche le menti più raffinate cedono il passo alla forza della verità. Perché quel concetto chiave di “tempo” da cui è partita la requisitoria, il tempo è galantuomo. La verità viene fuori, i depistaggi non reggono più e le cose vengono lette nella loro giusta luce. Paolo Fulci, diplomatico già a capo del Cesis, ci ha detto di essere stato vittima, dopo Gladio, di gravissime minacce da parte di soggetti riconducibili a servizi di sicurezza e in particolare alla settima divisione del Sismi, deputata istituzionalmente a occuparsi di operazioni “stay behind”, e quindi riferibili alla cosiddetta Gladio. Cosa ci dice Fulci? Che quelle minacce venivano rivendicate Falange armata. Utilizzare una sigla come quella serviva, per un verso a nascondere, ma anche ad amplificare la portata destabilizzante che quegli attentati dovevano assumere. Tutto questo Giuseppe Calabrò lo sapeva. E quando decise di collaborare con la giustizia, lo fece non perché avesse percepito le conseguenze giudiziarie a cui sarebbe andato incontro, ma lo fece per un disegno criminale che non passava solo dalla consumazione degli attentati ai carabinieri, ma anche dalla successiva fase depistante che le sue parole avrebbero avuto. Ecco perché Giuseppe Calabrò introduce nel suo racconto una serie di riferimenti che sembravano portare a riscontri importanti e decisivi sul suo narrato».
In aggiornamento
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