Tra le oltre 40mila persone che persero la vita nel campo di concentramento di Dachau vi era anche un figlio di Limbadi, nel Vibonese. Si chiamava Pantaleone Sesto e non aveva ancora compiuto 21 anni quando morì all’interno del lager tedesco e il suo corpo fu bruciato in un forno crematorio. Una morte atroce, di quelle che hanno costellato quel periodo storico, uno dei più bui di sempre. Una morte che oggi, Giornata della memoria, grida di essere ricordata più che mai.

A ricostruire la storia di questo giovane classe 1924 è stata la nipote Rosalba, stimato medico di medicina generale e figlia del fratello maggiore di Pantaleone. È lei che nel 2018 è andata fin lassù, in Germania, per vedere con i propri occhi il luogo dove era morto quello zio di cui aveva sempre sentito parlare. E per saperne di più. «Sapevamo davvero poco – racconta -, qualcuno aveva ottenuto il certificato di morte dal Consolato, ma nessuno aveva idea di come era morto». Lo scoprirà lei, negli archivi del campo di Dachau

La partenza come volontario al fronte

Ma andiamo con ordine. Pantaleone Sesto era un giovane forte ed intelligente, si era diplomato al liceo classico di Nicotera e iscritto all’università. A guerra inoltrata, arruolatosi nella Finanza decise di partire volontario. Una forte coscienza politica, dunque, la sua, complici gli studi – che probabilmente l’avevano forgiata – e anche il sapere di avere al fronte il fratello maggiore. Lo stesso – padre di Rosalba – che, per il gran dolore, successivamente si sarebbe rifiutato di parlare della fine fatta da quel fratello: «Non voleva parlarne né sentirne parlare. Quando in televisione veniva anche solo citata la Germania, dovevamo cambiare canale», ricorda la figlia.

Prigioniero numero 70589 a Dachau

Pantaleone si trovava a Trieste a metà 1944, quando, probabilmente nel corso di un rastrellamento, fu prelevato dai nazisti e spedito nel campo di concentramento di Dachau. Qui arrivò il 15 giugno e vi restò fino alla data della sua morte: il 12 gennaio del 1945. Per quei pochi mesi, smise di essere Pantaleone Sesto e diventò il prigioniero numero 70589. Così dice il suo tesserino identificativo, che testimonia il suo passaggio nel campo e di cui ora Rosalba conserva una copia. «Quando probabilmente si resero conto che li avrebbero uccisi, in tanti hanno nascosto i loro tesserini in una buca, perché non venissero distrutti – racconta Rosalba -. Tra quelli, c’era anche il tesserino di mio zio». Ed è proprio grazie a quel numero identificativo che ha potuto, attraverso i registri dell’epoca, ricostruire la sua storia: Pantaleone era stato messo nella baracca numero 10, quella dove finivano i giovani in salute. Triste destino il loro: sarebbero diventati delle cavie per la sperimentazione di farmaci contro la malaria, la tubercolosi e altre malattie. Il giovane limbadese divenne anche lui oggetto di esperimenti e, nel gennaio del ’45, dopo dieci giorni in infermeria con la febbre a 40°, morì. Il suo corpo distrutto nel forno crematorio.

Ricordare sempre

Un tonfo al cuore, sapere tutto. Ma anche la consapevolezza di aver offerto finalmente verità a una morte tragica e ingiusta. «La cosa che più mi ha colpito è stata la vicinanza del campo alla cittadina di Dachau. Com’è possibile che gli abitanti non sapessero cosa succedeva lì dentro? Com’è possibile che non si siano ribellati a tanto orrore?», si chiede Rosalba. Domande che cadono nel vuoto, ma che spingono a riflettere e a ripetere quasi come un mantra: mai, mai si dovrà dimenticare: mai, mai si dovrà ripetere. Intanto, la nipote di Pantaleone ha già in programma di tornare a Dachau: «Una volta che abbiamo ricostruito la sua storia e che abbiamo dato un volto a quel numero, mi hanno invitata a portare lì la sua foto in modo che gli possa essere dedicato un angolo nella biblioteca».