«Appare evidente come, all’interno del reparto di ginecologia dell’Ospedale “Riuniti”, esistesse una prassi consolidata di falsificazione delle cartelle cliniche funzionale a coprire errori medici, esecuzione scorretta di interventi, sciatteria nella gestione dei pazienti, noncuranza e non osservanza delle più basilari regole che informano il rapporto medico/paziente, quali ad esempio, l’adempimento di obblighi informativi del primo verso il secondo». Sono parole durissime quelle con cui il Tribunale di Reggio Calabria motiva le condanne comminate con la sentenza “Malasanitas” che ha fatto luce sugli orrori all’interno del reparto di Ginecologia degli ospedali “Riuniti” di Reggio Calabria.

La sentenza di primo grado di Malasanitas

Con la pronuncia, il Tribunale aveva condannato i medici e non soltanto. Nello specifico, la pena più pesante era stata inflitta a Daniela Manuzio, con 6 anni e 2 mesi di reclusione. Poi le condanne a 4 anni e 9 mesi per Pasquale Vadalà, a 4 anni e 8 mesi per Alessandro Tripodi, 4 anni e 6 mesi Filippo Luigi Saccà. 4 anni di reclusione, invece, per Antonella Musella e Maria Concetta Maio. Tre anni per Giuseppina Strati, 2 anni e 3 mesi per Luigi Grasso. Assolti Annibale Maria Musitano e Mariangela Tomo.

Ginecologia dei Riuniti reparto degli orrori

Secondo l’accusa vi sarebbe stato un vero e proprio “sistema” di copertura degli errori medici consumatisi nei reparti dell’ospedale reggino, attraverso la falsificazione delle cartelle cliniche dei pazienti. Nel corso dell’operazione, eseguita nel 2016, diversi medici furono anche arrestati e posti ai domiciliari, mentre per altri, fra cui un’ostetrica, scattò la sospensione dalla professione medica.

I casi di falsificazione delle cartelle cliniche

Ora, arriva una sentenza che, per quanto non abbia riconosciuto la sussistenza del reato di associazione per delinquere, ravvisa elementi di particolare gravità all’interno del reparto di Ginecologia. «Prova dell’esistenza di un sostanziale deterioramento del corretto esercizio della professione medica – il quale si traduceva in un sistematico ricorso alla falsificazione della cartella clinica affinché esso non fosse disvelato all’esterno e fosse foriero di azioni legali da parte dei pazienti – è emersa in tutti i casi clinici passati in rassegna», scrive il collegio presieduto da Stefania Rachele, con a latere (giudici estensori) Fabio Lauria e Stefania Ciervo.

 

I giudici ricordano come, in un caso, il primario Vadalà – che non aveva operato nella situazione specifica - «interveniva suggerendo l’occultamento della cartella clinica della gestante affinché non venissero disvelate eventuali responsabilità di Tripodi».

 

In un altro caso, «Vadalà copriva un proprio errore nel corso dell’esecuzione dell’intervento da lui posto in essere». In un’altra ulteriore circostanza, «Vadalà, Manuzio e Musella alteravano la cartella clinica occultando i propri errori nell’esecuzione dell’intervento».

 

In un caso, poi, i due ginecologi, Manuzio e Saccà, «coadiuvavano il collega Tripodi nella redazione di una cartella clinica dalla quale non risultasse l’induzione all’aborto della gestante in assenza di consenso». In un ultimo caso, Manuzi e Sorace «falsificavano gli esami diagnostici acclusi alla cartella clinica al fine di celare propri grossolani errori nella gestione del parto». In altri casi, scrivono ancora i giudici, «la falsificazione della cartella clinica risulta ascritta e commessa a sanitari diversi dai ginecologi ovvero, rispettivamente, gli anestesisti ed i neonatologi».

 

Il tribunale non ha dubbi: «È evidente, dai casi sopra menzionati, come in genere fosse il sanitario che aveva commesso l’errore medico a coprire lo stesso, falsificando la cartella clinica senza la necessità di coinvolgere altri sanitari del reparto, se non quelli che erano stati interessati nella trattazione del caso clinico».

 

C’è stato anche poi un caso nel quale «un insano sentimento di colleganza e di contrapposizione alle scelte del primario Vadalà, induceva i ginecologi a supportare le scelte del fratello della gestante». In un’unica occasione, ravvisano i giudici, «un sanitario del tutto estraneo al caso clinico nel corso del quale erano stati commessi gravi errori diagnostici e clinici, entrava a gamba tesa nella vicenda ordinando la soppressione della cartella clinica della gestante: si tratta del primario Vadalà». Ciò era dovuto al fatto che il decesso del neonato si era verificato a due giorni di distanza dal decesso di un altro neonato «il quale – rimarca il Tribunale – aveva destato scalpore a livello mediatico». La vicinanza temporale tra i due accadimenti e l’eco mediatica che era scaturita dal primo decesso «presentava implicazioni di natura organizzativa e gestionale del reparto, trascendenti il singolo errore medico del singolo ginecologo».

 

La sintesi è impietosa: «Le condotte di falso appaiono tutte commesse dai soggetti che avevano compiuto l’errore medico o elaborato la strategia terapeutica scorretta». Ciò porta i giudici a ritenere «non provata l’esistenza di un meccanismo automatico, trascendente il ruolo del singolo sanitario e l’interesse personale dello stesso all’occultamento dell’errore medico, operante in via stabile e attivo all’occorrenza, con a capo gli imputati Vadalà, Manuzio e Tripodi».

Perché l’associazione per delinquere non regge

Ancora, il collegio giudicante ritiene non sufficienti i riferimenti fatti al pm alla contrapposizione esistente fra ginecologi e anestesisti o ginecologi e neonatologi: «Essi – scrivono i giudici – sebbene deprecabili ed espressione di una contrapposizione in stile tifoseria calcistica non degna dell’esercizio della professione medica, non appare sufficiente di per sé a provare l’esistenza di una struttura associativa composta dal “gruppo dei ginecologi”».

 

La presunta associazione per delinquere, in primo luogo, «non presenta, alla luce delle prove raccolte, alcuna organizzazione interna neanche rudimentale: le fattispecie di falso vengono commesse con le modalità operative più disparate, che vanno dall’occultamento della cartella clinica, allo “sbianchettamento” o cancellatura, all’omissione, fino all’indicazione di dati falsi e non aderenti alla realtà e al quadro clinico, secondo tempistiche e luoghi non predeterminati, ma scelti all’occorrenza dai soggetti interessati».

 

Per i giudici non c’è neppure alcuna ripartizione dei ruoli nella commissione dei fatti di falso: «Non vi è un soggetto deputato all’esecuzione materiale del falso ed altri deputati alla ricerca delle modalità più idonee dal punto di vista medico e scientifico per celare gli errori commessi, non c’è un soggetto incaricato a decidere quale patologia o pratica medica debba essere indicata in cartella per celare l’errore». Accade, infatti, che «in via del tutto estemporanea e occasionale, ciascun sanitario che ha commesso l’errore si adopera al fine di occultarlo con la complicità di altri sanitari interessati, per i motivi più diversi alla vicenda medica. Anche il ruolo di capi e promotori attribuito agli imputati Vadalà, Manuzio e Tripodi all’interno della presunta compagine associativa non appare sorretto da alcun dato probatorio».