«La disperazione più grave che possa impadronirsi d'una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile». Scriveva Corrado Alvaro. E disperata è quella terra in cui i confini fra quello che è ‘ndrangheta e quello che ‘ndrangheta non è, sfuggono o peggio poco importano anche a chi le conseguenze del dominio dei clan le ha vissute sulla propria pelle. Una sindrome di Stoccolma, sociale, collettiva.

Vittima di clan, moglie di uomo dei clan 

All'ufficiale Ivana Fava, la ‘ndrangheta ha ucciso il padre, il brigadiere Nino Fava, insieme al collega Cecè Garofalo, nel gennaio ’94 sacrificato dai clan calabresi sull’altare della stagione degli attentati continentali, con cui con cui mafie, pezzi di servizi, di eversione nera e massonerie puntavano a imporre i propri interlocutori politici.

 

Lo dicono i due pentiti che sono stati esecutori materiali di quell’omicidio e altri due attentati, lo ha ricostruito con dovizia di dettagli, prove, riscontri l’inchiesta del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che ha fatto finire a processo come mandanti il mammasantissima di Melicucco e riservato dei Piromalli, Rocco Filippone, e il boss palermitano Giuseppe Graviano.


Più di vent’anni dopo, svela l’inchiesta Eyphemos, lei non ha avuto alcuna remora nel dividere cene e selfie con parenti di boss. E suo marito, Nino Creazzo, arrestato ieri su richiesta della Dda come uomo degli Alvaro di Sant’Eufemia, per conto di quegli stessi clan non ha esitato a tentare di addomesticare sentenze in Corte d’Appello a Reggio Calabria o Roma, grazie «ad un aggancio» forte in Cassazione.

A tavola con i parenti dei boss

Che si sappia, lei invece non è indagata. Ma nelle oltre 3600 pagine di ordinanza dell’inchiesta Eyphemos, coordinata dal pm Giulia Pantano, dall’aggiunto Gaetano Paci e dal procuratore capo, Giovanni Bombardieri, il suo nome ricorre spesso. E nella migliore delle ipotesi come strumento nelle mani del marito Nino Creazzo, fratello e mandatario elettorale del neoconsigliere regionale di Fratelli d’Italia, spedito in Regione a forza di voti offerti dai clan di Sant’Eufemia.


Di certo, insieme al marito aveva frequentazioni poco opportune per una divisa e quasi inspiegabili per una vittima dei clan. Gli investigatori della Mobile la monitorano mentre insieme al marito divide cena e tavolo con Domenico Alvaro, figlio del boss Nicola condannato per mafia ed estorsione aggravata e cognato di Giuseppe Crea, dell’omonimo clan di Rizziconi, e consorte. Un’uscita a quattro, con tanto di selfie finale che ritrae le due coppie sorridenti, captato su Whatsapp e finito nelle informative. 

«Domenico Alvaro, ha un tenore di vita che manco re Filippo»

Eppure l'ufficiale Fava sapeva perfettamente chi fosse Domenico Alvaro, a cui il marito era legato da amicizia di lunga data, urbi et orbi rivendicata.  A dimostrarlo è una conversazione intercettata il 3 ottobre 2019. Alvaro era stato sottoposto a misura di sicurezza e a Creazzo la cosa sembrava un’ingiustizia. «Eh, ma come pretendono?! Ma si rende conto del nome che porta? Alvaro ... non è che stiamo parlando di ... di Domenico quello di fronte là, parliamo di Domenico Alvaro ... è normale che gliela rigettano! Può fare tutti i ricorsi che vuole».


Un provvedimento è comprensibile anche per ragioni oggettive, che lei stessa non ha difficoltà a notare «Mi pare che hanno un tenore di vita che manco il Re Filippo se lo può mantenere! Dai! (..)Senti, da qualche parte gli devono entrare i soldi? Magari non lo sa nemmeno lui da dove gli entrano, però gli entrano».

E Creazzo – affermano le conversazioni intercettate – sapeva perfettamente che Alvaro non era estraneo alle gerarchie mafiose di famiglia. «Domenico li comanda a tutti» lo sentono dire gli investigatori nel corso di una conversazione con Vincenzo Fedele.

La banalità (dell’assuefazione) al male

Massone di medio rango ma con ambizioni, quando Creazzo dice alla moglie di essere “intervenuto” per convincere un usuraio a lasciare in pace il fratello di loggia, lei subito sospetta che il marito si sia rivolto a uomini dei clan per far valere le sue pretese. E più volte glielo chiede. Ma quando lui ammette di aver fatto arrivare il messaggio tramite il clan Crea di Rizziconi, stando alle conversazioni riportate, non abbozza neanche una reazione.


E di buon grado si presta ad aiutare il marito, quando la campagna elettorale per il cognato Domenico Creazzo comincia e tocca raccattare voti. Chiedendoli a chiunque.

In elenco c’è anche Stefano Bivone, imprenditore di professione, con l’ambizione ad entrare in A.t.c., l'organo regionale caccia e ottime entrature in Anci, grazie ad un rapporto personale di amicizia con Gianluca Callipo, sindaco di Pizzo Calabro fin quando non è finito in manette nell’operazione Rinascita-Scott. Per “convincere” Bivone ad appoggiare il fratello, Creazzo non solo si fa dare una mano da Francesco Vitalone, incensurato ma per gli investigatori «gravitante nell' orbita della cosca Alvaro», ma chiede una mano anche alla moglie.

L’intervento in Prefettura

Bivone ha un problema. Il padre non riesce ad ottenere la certificazione antimafia per la sua azienda. Per questo Creazzo chiede alla moglie, ufficiale dei carabinieri in passato impiegata in prefettura, di interessarsi della questione. «Vedi che è una cosa non importante di più .. la dobbiamo difendere con i denti questa cosa» le raccomanda. E per la causa, Ivana Fava si batte. Il 10 dicembre scorso si presenta in prefettura. Lì scopre che i funzionari prefettizi si erano fino a quel momento opposti al rilascio in favore di Antonio Bivone della certificazione antimafia, perchè avevano rilevato l'insussistenza dei requisiti richiesti per legge.

 

In passato, l’uomo aveva avuto problemi giudiziari e non era mai stato assolto dalle accuse che gli venivano contestate, erano solo cadute in prescrizione. Inoltre, annotano gli investigatori, nell’84 era stato arrestato per mafia e indagato come espressione del clan degli Alvaro-Macrì-Violi. Nonostante questo – racconta Fava al marito – lei si sarebbe “battuta” per Bivone, alla cui posizione – annotano gli investigatori - «Creazzo era in realtà interessato per ragioni squisitamente elettorali». È lei a raccontare tutto al marito ed è in quell’occasione che salta fuori «che Ivana Fava ambiva a lasciare l'incarico nell'Arma cui è attualmente preposta per ritornare a lavorare in quell'ufficio».

«Il ministro deve fare qualcosa per me»

In ogni caso, anche lei cerca di approfittare degli incontri di campagna elettorale del marito per ottenere qualche beneficio di carriera. Il marito – si legge nelle carte dell’inchiesta «sta per andare a pranzo con un generale della Guardia di Finanza nominato dall’allora ministro dell’Interno Ministro Matteo Salvini, Presidente dell'autorità portuale di Gioia Tauro».

E poi, riportano ancora le trascrizioni «Ivana Fava dice che il predetto la potrebbe aiutare e il marito l'asseconda». Anzi aggiunge che «il Generale ha detto a Domenico Creazzo che la cosa di sua cognata (l’omicidio del padre) lo aiuta molto con Salvini, in quanto quest'ultimo ci tiene a queste cose». E Ivana Fava «ribatte che il Ministro deve fare qualcosa per lei però». Anche a costo di far valere un lutto.