Quattordici fra note integrative, informative, stralci di verbali e dichiarazioni. Quattordici tasselli che rischiano di rendere assai difficile al boss Giuseppe Graviano trincerarsi dietro affermazioni vaghe, mezze parole, messaggi rivolti più all’esterno che al carcere. Silenzi, come quello sul nome di Marcello Dell’Utri, che il boss di Brancaccio sempre si è rifiutato di fare. Riferimenti vaghi, come quello ai non meglio precisati «imprenditori milanesi» con cui, tramite «il socio» Silvio Berlusconi, sarebbe stato in affari.

Le nuove indagini della Dda che rischiano di preoccupare Berlusconi

Sono verbali pesanti, approfondimenti precisi, elementi nuovi quelli depositati agli atti del processo “’Ndrangheta stragista” in cui Graviano è imputato insieme al mammasantissima di Melicucco, Rocco Filippone, come mandante degli omicidi dei brigadieri Fava e Garofalo, con cui la ‘ndrangheta ha messo anche la propria firma sulla stagione degli attentati continentali. Dati che in parte confermano le dichiarazioni del boss di Brancaccio, ma soprattutto stanano i sui silenzi. E rischiano di mettere in difficoltà anche il padre fondatore di Forza Italia, Silvio Berlusconi.

Traiettorie incrociate in via Veneto

Perché – emerge oggi grazie al lavoro degli investigatori della Mobile e del Servizio Centrale Antiterrorismo, coordinati dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – negli stessi giorni del gennaio ’94, nella stessa zona di Roma, Graviano e il pentito Spatuzza, riferisce il collaboratore, si incontravano per preparare il fallito attentato all’Olimpico e all’hotel Majestic Forza Italia lavorava al suo battesimo ufficiale.

E mentre in quelle sale – rivela oggi un’informativa –  Marcello Dell’Utri incontrava «soggetti di chiara provenienza calabrese e siciliana» arrivati «per sostenere il nascente movimento politico», Graviano – riferisce Spatuzza – si presentava all’appuntamento «felice come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria», faceva il nome di Dell’Utri e Berlusconi «che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia».

Le conferme di Brusca

Coincidenze? Casualità? Di certo, il boss di Brancaccio – e forse non solo – sarà chiamato a chiarire. Anche perché adesso nuovi elementi confermano il suo diretto, personale rapporto con Berlusconi. Arrivano da un verbale del pentito Giovanni Brusca, “u verru” responsabile di decine di omicidi, fra cui quello del figlio del pentito Di Matteo, sequestrato, ucciso e sciolto nell’acido.

Una «banalità» fondamentale

Da oltre un decennio ormai Brusca collabora con i magistrati, cui ha rivelato anche di essere stato lui a premere il pulsante che ha innescato il tritolo a Capaci. Ma due anni fa, leggendo le motivazioni del processo sulla Trattativa Stato-Mafia, ha ricordato un episodio che ha ritenuto importante riferire. Lo considerava «una banalità» e solo alla fine del 2018, leggendo quelle carte, ha capito quanto fosse importante. Carte da cui emergono i rapporti fra Silvio Berlusconi e i clan siciliani. E di cui Brusca ha prova e contezza.

«Dovevamo rapire il figlio di Piero Grasso»

L’episodio risale al ’95, racconta ai magistrati di Palermo. A Dattilo era stata fissata una riunione fra lui Nicola Di Trapani, il superlatitante Matteo Messina Denaro e Vincenzo Sinacori, anche lui oggi pentito, per discutere di stragi. In ballo, c’era anche l’ipotesi di rapire il figlio di Piero Grasso. «Già avevamo individuato che giocava a calcetto, in un campo di calcetto e via discorrendo».

L’orologio di Berlusconi da mezzo miliardo che Graviano invidiava

Pratiche ordinarie per gli stragisti dell’epoca, che non impedivano loro di passare poco dopo ad argomenti assai più leggeri. Vestiti e orologi, per la precisione, che per più di uno erano una vera e propria ossessione. «Messina Denaro – afferma Brusca – mi disse che un giorno Giuseppe Graviano, incontrandosi con Silvio Berlusconi, gli ha visto un orologio al polso che valeva 500 milioni». E lo ha fatto di persona. «Non mi dice che lo ha visto su una rivista» specifica il pentito. Una prova, ulteriore, dei rapporti fra il boss di Brancaccio e Berlusconi, che fa il paio con un’altra recente acquisizione.

Il quadernetto «da terza guerra mondiale»

Arriva da una deposizione del pentito Toni Calvaruso. Ascoltato al processo Borsellino quater, il collaboratore si lascia scappare un riferimento ad «un quadernetto» tanto importante da far scoppiare «la terza guerra mondiale» perché dentro «c’erano appuntati nomi e cifre». Lo aveva avuto in consegna da Bagarella con l’ordine di consegnarlo a Graviano «e mi disse di non farlo vedere a nessuno perché sarebbe successo un macello» racconta.

«Io non ho mai guardato cosa ci fosse scritto sul quaderno –  aggiunge Calvaruso – lo conservai in un magazzino e poi lo consegnai ai Graviano su disposizione di Bagarella stesso». Lo stesso boss di Brancaccio che nei mesi scorsi, in udienza, si è limitato a timidi e non meglio precisati accenni a «imprenditori milanesi» con cui sarebbe stato in affari. Gli stessi di cui si parla in quel quaderno? Dettagli tutti da chiarire. Al pari di quanto successo nelle stanze dell’hotel Majestic nel gennaio ’94, quando si preparava la nascita di Forza Italia.

I nuovi approfondimenti sulle riunioni all’hotel Majestic

È lì che su ordine del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo sono tornati gli investigatori del Servizio Centrale Antiterrorismo. Carte che ricostruiscano quel periodo non ce ne sono più. Le fatture vengono mandate al macero dopo dieci anni, c’era un registro informale degli eventi programmati, ma non ce n’è più traccia e anche gli ordini di servizio ormai chissà dove sono finiti. Però dipendenti e manager ricordano.

«Riunioni riservate a cui ha partecipato Berlusconi»

Il Servizio Centrale antiterrorismo ha iniziato ad ascoltarli quando l’emergenza Covid è iniziata, ma ha dovuto fermarsi causa lockdown. Ricominceranno, sembra di capire dall’informativa, ma il materiale raccolto già restituisce un quadro chiaro. Da quelle parti conferma Nicola Violante, all’epoca presidente del cda della società di famiglia che deteneva l’hotel, «ci sono state riunioni ristrette preliminari alla formazione del partito politico Forza Italia, a cui ha partecipato anche Silvio Berlusconi».

Foto e contratti confermano

Lo confermano le foto che ritraggono il padre di Violante, il padre padrone di Forza Italia e Gianni Letta che lo testimoniano. E poi in fondo era normale che così fosse, spiega, perché c’era un accordo con Fininvest – conferma anche la sua manager - per cui alla società venivano riservate un certo numero di stanze in cambio di pubblicità.

Quei drink al futuro gruppo dirigente di Forza Italia

Nessuno dei dipendenti dell’epoca però è in grado di dire cosa si discutesse in quelle riunioni. Si svolgevano tutte in suite o salette riservate, ma che vi partecipasse il futuro gruppo dirigente di Forza Italia nessuno ha dubbi. «Non so dire chi fossero – dice il barman dell’epoca - ma ricordo di averli ricollegati allo stesso movimento politico in quanto in ogni occasione venivano accolti da Marcello Dell'Utri». Il principale anfitrione, che tutti ricordano.

Fini, Mastella, Sgarbi, Galan e «personaggi calabresi e siciliani»

Con lui, ricorda uno dei dipendenti dell’epoca, Gianfranco Fini e Clemente Mastella in un’occasione si sono riuniti fino a tarda notte. Altri ricordano che nello stesso periodo si facevano vedere in hotel anche Vittorio Sgarbi e Giancarlo Galan, l’ex ministro e presidente della Regione Veneto travolto dallo scandalo Mose. Ma sembra essere una in particolare la traccia che inquirenti e investigatori vogliono approfondire. Perché fra chi si riuniva con Dell’Utri c’erano anche persone «di chiara provenienza calabrese e siciliana» chiaramente riconoscibili, dice il dipendente che ha fornito il dato, «parlavano con marcato accento dialettale da me conosciuto per le mie origini calabresi».

Coincidenze da chiarire

Un dato da approfondire. Perché a pochi passi da lì, il 21 gennaio, il siciliano boss Graviano – vestito di tutto punto, come se arrivasse da un appuntamento importante ha detto Spatuzza –  parlava di Dell’Utri e Berlusconi e festeggiava perché «grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia». Ma bisognava «dare un altro colpo» avrebbe detto Graviano al collaboratore durante quell’appuntamento necessario per preparare il fallito attentato all’Olimpico. Particolari che adesso Giuseppe Graviano potrebbe essere chiamato a chiarire.