«Mio marito è stato ucciso. Non si è tolto la vita, non l’avrebbe mai fatto. E non l’avrebbe mai e poi mai fatto in quel modo». Gli occhi di Anna Maria esprimono tutta la sofferenza di una donna rimasta vedova troppo presto dell’uomo che amava. Il suo Nicola aveva uno spirito indomito. Compagno romantico, suo, ma anche di una generazione di militanti comunisti che inseguendo un’ideale di giustizia sociale, per i diritti dei lavoratori, la legalità, la libertà, l’ambiente, contro ogni forma di sopruso, ha speso un’intera esistenza.

L’inchiesta giudiziaria

È trascorso un anno da quando Nicola è spirato al Sant’Eugenio di Roma. Ricorda, Anna Maria, l’elisoccorso alzarsi in cielo. Suo marito, col corpo devastato dalle ustioni, non poteva sopravvivere. La Procura di Vibo Valentia ha aperto un’inchiesta: istigazione al suicidio. La mattina del 23 novembre 2019, secondo la ricostruzione operata dagli inquirenti, si sarebbe recato al cimitero di Stefanaconi, si sarebbe spogliato e poi, cospargendosi il corpo di liquido infiammabile, si sarebbe dato fuoco.

A corroborare questa tesi alcune testimonianze - in particolare quella di una donna, richiamata dalle strazianti urla di dolore e accorsa a prestargli soccorso - e, soprattutto, una lettera lasciata ai proprio cari, nella quale chiedeva perdono per il gesto che si apprestava a compiere, ricondotto al senso di colpa per gli errori commessi nell’istruire alcune pratiche nella sua veste di impiegato, precario, del Comune di Stefanaconi. «Io a tutto questo non credo affatto», dice Anna Maria, che ripete: «Mio marito non si è ucciso, è stato ucciso. Quella lettera? Questa sì, qualcuno l’ha indotto a scriverla».

Il profilo

Ma chi è Nicola Arcella? Storico dirigente di Rifondazione comunista, poi avvicinatosi al movimento di Luigi De Magistris Il Sud che sogna. Già vicesindaco di Stefanaconi e presidente della Pro loco. Un precario storico. Prima alla Provincia, poi alla Regione, poi al Comune del suo paese. «Uno degli inquirenti -rammenta la moglie - un giorno mi guardò e mi disse “Signora, lei lo sa che suo marito lavorava come un ciuccio?”. Sì, lo sapevo. L’ho sempre saputo. Nicola sperava di non essere più precario e di essere assunto a tempo indeterminato, sperava che gli si aumentassero le ore. Ma lavorava lo stesso più di quanto doveva. E nonostante questo, oggi non mi viene riconosciuta neppure la pensione di reversibilità… Comunque, non è per questo che combatto. Io combatto affinché venga fuori la verità, tutta la verità. E chi ha ucciso mio marito ne risponda».

Il giorno della tragedia

È il 23 novembre 2019, sono le 7.50. Nicola, assieme ad uno dei suoi figli, esce di casa. «Mio marito era preoccupato da tempo, era strano. Non era più lui. La sofferenza gliela leggevi in volto. C’era qualcosa di grave che lo turbava, ma non si è mai aperto. Ha sempre tenuto tutto dentro, malgrado lo spronassi a parlare. Da circa un mese, quasi non lo riconoscevo più», racconta la donna. Eppure, quella mattina, nonostante le ombre in viso, Nicola programma la giornata: «Mi dice che avrebbe accompagnato mio figlio dalla nonna, che poi sarebbe andato a Vibo per partecipare ad un incontro, un convegno, non so… E che poi sarebbe tornato. E che nel pomeriggio saremmo usciti per andare a fare spesa».

Due ore dopo, la sirena di un’ambulanza squarcia il silenzio di Stefanaconi. Sono le 9.50. Anna Maria ha un sussulto, poi pensa: «Nicola è a Vibo…». E invece no. Arrivano a casa il figlio e alcuni parenti. Lei comprende che è successo qualcosa di grave a Nicola, ma provano invano a rassicurarla. Viene accompagnata al cimitero, proprio mentre atterra l’elisoccorso e lì si materializza il dramma in tutta la sua dimensione. La scena è agghiacciante. Lei è disperata. Vuole avvicinarsi a Nicola, confidando che anche con un filo di voce le possa dire cosa è accaduto. Ma non può farlo, le viene impedito. Nella concitazione domanda cos’è successo. Poi urla: «Lo avete indotto! Assassini!».

Troppe domande

Ma chi sono gli assassini? «Rivivo sempre quei momenti - spiega oggi -. Posso dire che non credo affatto che mio marito sia stato indotto a togliersi la vita, mio marito è stato ucciso. Perché, per com’era fatto lui, non si sarebbe mai suicidato. Diceva sempre, a me e ai miei figli, che i problemi si affrontano, che la vita va vissuta nonostante tutto. E poi che senso ha togliersi i vestiti? Uno che si dà fuoco, si dà fuoco. Non pensa ai vestiti. E poi lui che si dà fuoco… Lui che non sopportava nemmeno di fare una puntura…». E il cimitero che c’entrava? «Lui non ci andava quasi mai. Eccetto uno zio, non abbiamo avuto finora persone care scomparse».

Al netto delle testimonianze e del contenuto della lettera lasciata ai suoi cari, anche questa - come il pc, un’agenda con tutti i suoi appunti, lo smartphone e i tabulati telefonici - al vaglio del procuratore Camillo Falvo, del pm Filomena Aliberti e del comandante Sezione di Polizia giudiziaria della Procura Massimiliano Staglianò, rimangono irrisolti tanti interrogativi. Che senso ha programmare la giornata (il convegno a Vibo, il ritorno a casa, la spesa) se si ha intenzione di farla finita? E indipendentemente da ciò, cos’è successo tra le 7.50 e le 9.50 di quel 23 novembre? Chi ha incontrato, o sentito, Nicola Arcella, quella mattina prima di diventare una torcia umana?

C’è poi il dubbio più assillante: cosa turbava Nicola? Perché, anche agli occhi della moglie, nelle ultime settimane, sembrava l’ombra di sé stesso? Era minacciato? Si sentiva in pericolo? Temeva per i suoi cari?

Quegli strani accadimenti

Sua moglie ricostruisce alcuni episodi molto significativi. Torna indietro al Primo maggio, festa dei lavoratori. Partecipano ad un viaggio a Napoli, sono su un pullman. Un uomo si avvicina a Nicola e -rammenta Anna Maria - dice: «Te l’avevo detto di seguire i miei consigli! Ora invece a fine anno te la passerai brutta, perché arriverà uno dal Reggino che farà tremare…». Lei assiste alla scena, vede il volto del marito tirato. Lui risponde: «Vedremo». E, quando l’amico si allontana, inizia ad incalzare Nicola. Oggi ricorda: «Quella scena mi ha turbato molto. Mi hanno preoccupato sia le parole, ma soprattutto l’espressione di mio marito. Gli chiesi cosa stesse succedendo, di cosa stessero parlando. Ma lui niente…».

Arriviamo ai primi giorni di novembre. Ed è qui che la vita di Nicola viene sconvolta. «Un giorno torna a pranzo. Era strano, mai visto così prima. Mi dice che in Comune erano arrivati dei tecnici informatici per fare delle verifiche sui computer. Mi dice che i pc erano tutti infetti e che quello che aveva più virus era il suo. Mi dice che era venuto uno dal Reggino. Oggi mi chiedo se sia la stessa persona che, come ascoltai il Primo maggio, avrebbe fatto “tremare”. Fatto sta che mio marito da quel giorno cambiò per sempre». Insonne, preoccupato, assente. Era qualcosa che c’entrava col lavoro ad assillarlo, era ciò che stava facendo al Comune. Perché Nicola, ormai, s’era ridotto a casa e lavoro, casa e lavoro.

Il 23 novembre si avvicina

Arriviamo a pochi giorni prima della tragedia. Anna Maria ricorda: «Pranziamo e mi dice “Vado in ufficio, tra poco torno e usciamo”. Si fanno le quattro e non arriva. Lo chiamo e non risponde. Non è da lui. Si fanno le cinque e poi le sei. Arriva a casa, peggio di prima, assente, preoccupato. Mi dice “Dai che usciamo”. Gli rispondo “È tardi, ormai dove dobbiamo andare?”. E lui “Dobbiamo uscire e se non vuoi uscire tu esco io, ho bisogno di aria”. E allora gli chiedo di spiegarmi stava accadendo perché ormai non lo riconoscevo più. Mi risponde “Sono stato dai carabinieri per portare delle pratiche, ma ti prego non chiedermi niente, ti prego non chiedermi niente”. Nicola era sconvolto, solo questo ricordo».

Il tempo scorre e quel maledetto 23 novembre si avvicina. «Noi abbiamo un piccolo terreno. Una mattina esco per andare a prendere un po’ di lattuga che Nicola aveva coltivato. C’era mio figlio a casa. Quando rientro, mio figlio mi dice “Ha chiamato papà, voleva sapere se io ero a casa. E voleva sapere se tu eri andata in campagna. È stata una telefonata strana”. Rimasi perplessa - spiega Anna Maria - Nicola quel tipo di telefonate non le faceva. Quando tornai gli chiesi perché non aveva chiamato me, ma lui niente… In quel momento non ci pensai più di tanto, ma dopo quello che è successo mi faccio tante domande. Era come se fosse preoccupato per me e per mio figlio. Come se volesse sincerarsi dove eravamo e se stavamo bene».

Una lettera, due stili

Nicola Arcella aveva un amore viscerale per la sua famiglia. Le parole d’amore rivolte a sua moglie, in quella lettera d’addio, sono di una profondità e di una bellezza struggenti: «Ti amo più di me stesso, perdonami se puoi». Così ai figli, a cui chiede di continuare nei valori che ha loro insegnato: «Unità, rispetto, legalità, solidarietà». Scrive Nicola: «La mia integrità morale, il mio impegno intellettuale, non mi danno alternativa, questa è la mia unica possibilità di riscatto, la mia fuga da questa vita».

Anna Maria, però, non crede che quella lettera l’abbia scritta scientemente, almeno non nella prima parte. Sono quattro fogli, dei quali uno riciclato da altri appunti. La prima parte è scritta con grafia ordinata e regolare. È la parte in cui, in sostanza, spiega di «aver danneggiato», nel gestire alcune pratiche, il titolare di una tabaccheria e di un autolavaggio. Spiega di aver danneggiato anche il sindaco ed il vicesindaco di Stefanaconi, i quali avrebbero firmato quelle carte che aveva preparato «sbagliando», ma - sottolinea - «credetemi, sempre in buona fede». Tredici righe, tutte in corsivo, con grafia ordinata.

Poi due righe in stampatello, molto grandi: «Chiedo scusa a tutti quelli che ho danneggiato». E qui inizia una scrittura decisamente più di getto, più burrascosa, più emotiva. Nell’ultimo foglio, quello in cui pronuncia parole d’amore e d’addio ai suoi cari, un altro appunto, ma scritto verticalmente sul lato lungo sinistro del foglio: il numero di una lettera protocollata al Comune e poi «il sindaco non c’entra niente, gliel’ho fatto fare io…».

Pratiche del Comune, la tabaccheria, l’autolavaggio, presunti errori che avrebbero danneggiato i titolari delle attività e gli amministratori locali. Ma in che modo? E poi i tecnici alle prese coi virus nel pc, quelle ore in caserma assieme ai carabinieri. Può tutto questo spiegare il suicidio di un uomo perbene, integerrimo, appassionato? A quali tipi di pressioni è stato sottoposto al punto da non reggere più? «Ma mio marito non si è ucciso, è stato ucciso - ripete convintamente Anna Maria - E molte cose sanno di messa in scena». L’indagine è aperta per istigazione al suicidio, ma la Procura - decorso un anno dall’evento - potrebbe anche chiedere al gip l’archiviazione del caso. Non è detto che non vi siano indizi verso qualcuno, potrebbero semplicemente non essere sufficienti - al momento - per andare ad un dibattimento.

«Sola in questa battaglia»

La moglie di Nicola Arcella non nega affatto, anzi, ribadisce con forza di essere «rimasta sola in questa battaglia per la verità sulla morte di mio marito». L’unico sostegno pervenutole è quello degli ex compagni di Rifondazione comunista. L’assiste l’avvocato Pietro Naso, anch’egli attivista e dirigente del vecchio partito di Bertinotti. «Qualora la Procura dovesse chiedere l’archiviazione del caso, visioneremo gli atti - spiega il legale - ed opereremo le nostre controdeduzioni». L’azione dell’avvocato Naso è sostenuta dai «compagni di Rifondazione», i quali si sono resi protagonisti di una colletta per pagare i diritti di cancelleria, qualora non fosse ammessa al patrocinio dello Stato, e quanto è necessario affinché la storia di Nicola possa diradare tutte le sue zone d’ombra proprio in tribunale. «Io non mi fermerò - dice Anna Maria -. Spero che l’opinione pubblica capisca che un uomo come Nicola non può essere dimenticato. Spero soprattutto che almeno la sinistra, quella in cui mio marito ha sempre creduto, non mi lasci sola e mi sostenga. Ma qualunque cosa accada, giuro, io non mi fermerò».